122. Tutte le volte che ti ho detto: ti voglio bene

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«Cosa guardi? Non hai mai annusato le palline appena aperte?»

Artemide l'aveva avvisato.

Accadono cose strane, quando le anime si avvicinano.

E adesso era lì, Simone. In quella stanza, ma contemporaneamente anche su un campo da tennis, di terra rossa.

Aveva sei anni, Simone. E c'era Claudio, davanti a lui. Era un bambino biondissimo, abbronzato e spilungone. In piedi accanto alla rete, stava annusando un tubo di palline, che aveva appena aperto. Dunlop Clay Court.

Era la prima volta che rivolgeva la parola a Simone e lui era terrorizzato all'idea di fare una figuraccia. Erano mesi che lo ammirava di nascosto. Avrebbe voluto tanto parlare con lui, farci amicizia... Ma Claudio era il capetto del circolo, il figlio del pro. Non se le calcolava, le pezze da piedi imbranate come Simone.

«Tiè, senti. Senti che buono!»

Simone era emozionato. Gli batteva il cuore. Mi ha parlato! Finalmente! Si avvicinò, allungò il viso, annusò le palline nel tubo. Era un odore un po' sintetico, gli ricordò quello di macchina nuova. Claudio spinse il tubo e lo fece sbattere contro il naso dell'ignaro bambino. Rise, e Simone si sentì uno stupido.

«Io sono Claudio. Tu sei Simone, vero?» disse lui tenendo la mano. Simone gliela strinse, e il cuore gli batteva così veloce.

Per un attimo ebbe la percezione di essere dentro a un ricordo, ma le sensazioni erano così vivide: stava rivivendo una scena della sua vita per la seconda volta. La stava rivivendo in prima persona, come fosse il presente.

«Come fai a conoscermi?» chiese lui, emozionato, con la vocetta acuta di un bimbo di sei anni.

«Mi ricordo di te a lezione! Sei quello col rovescio bruttissimo e il dritto a banana. Se vuoi ti presento mio papà e ti spiega lui come si fa bene. Lo sai che mio papà è classificato ATP?»

«Non lo sapevo...» mentì Simone, che di Claudio conosceva tutto il conoscibile.

«Qualche anno fa era numero 536 del mondo!»

«È una pippa, quindi.»

Simone rivisse il momento di puro terrore che aveva provato quel giorno, subito dopo essersi lasciato sfuggire quel commento. Sapeva come andava a finire quella scena, ma ugualmente il suo stomaco si annodò, come se la stesse vivendo per la prima volta.

Claudio lo fissò in modo ostile per un paio di secondi, coi suoi occhi stretti e chiari. Poi un angolo della sua bocca si alzò. «Sì, è una pippa. E c'è pure un'altra cosa...» Rise, si guardò intorno e sottovoce aggiunse: «È della Lazio!»

«Nooo!» Simone ebbe un tuffo al cuore. «E tu sei della Roma?»

Fa' che sia della Roma! Fa' che non sia della Juve, o di qualche altra squadra inutile!

«Eccerto! Pure tu?»

«Sì! Forza Roma sempre!»

«Grande Simo'! Siamo gli unici due romanisti qui al circolo. Sono tutti tutti tutti della Lazio!» Claudio fece una smorfia disgustata. «Domenica vieni a vedere il derby a casa mia, c'è anche mio papà, così gli facciamo supertifo contro.» Non era una richiesta. Era un ordine. E Simone non fu mai tanto felice di obbedire.

La scena cambiò. Quasi all'improvviso, come in un sogno. Simone aveva otto anni, Claudio sette e mezzo. Erano dentro uno spogliatoio. Panchine di legno e piastrelle bianche a terra. Era lo spogliatoio di un circolo tennistico di Roma. Claudio sedeva col busto chino e le braccia appoggiate alle cosce, il borsone da tennis ai suoi piedi. Aveva appena perso, zero sei, zero sei. La prima volta che giocava una partita di un vero torneo organizzato dalla FIT.

L'ultimo evocatore - [Desiderio, volume 2]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora