Capitolo 451: Latet anguis in herba

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Nel campo dei fiorentini si respirava un'aria d'attesa che a Ottaviano Riario piaceva molto poco.

Corradini e Colombini, i due Capitani che sua madre gli aveva messo alle costole per far sì che lo controllassero, erano molto più distesi di lui, ma il giovane era convinto che fossero nel torto.

Pisa sembrava ormai saldamente nelle mani di Paolo Vitelli, ma quest'ultimo si stava facendo ogni giorno più inquieto ed era chiaro che qualcosa lo angustiasse.

"Se è questione di soldi – aveva minimizzato la sera prima Corradini, quando Ottaviano aveva sollevato le sue perplessità mentre mangiavano attorno al fuoco – vedrete che si sistemerà tutto quanto. Firenze, se vuole, ha tutti i soldi del mondo, e Lorenzo Medici ne ha ancora di più."

"Infatti – aveva concordato Colombini, come a voler chiudere in fretta il discorso – figuriamoci se si lascerà sfuggire l'occasione di pagare di tasca propria l'esercito, al fine di essere ritenuto un padre della patria, salvatore della Repubblica..."

I due Capitani si erano messi a ridere, pregni dell'ironia dei soldati, quel genere di amaro e costante buon umore che il Riario non riusciva in alcun modo a capire.

Non apprezzava nulla, della vita dell'armigero, tanto meno le consuetudini degli uomini che lo circondavano. Le battute volgari, dopo un po', lo annoiavano, le chiacchiere ricche di sottintesi e velati insulti a questo o quel signore erano a volte per lui troppo sottili per essere capite, e lo sporco, la mancanza di comodità e la precarietà della vita andavano a completare un quadro che detestava ogni giorno di più.

Tuttavia era lì, mandato da sua madre e ben intenzionato, quella volta, a non fare ritorno se non su suo preciso ordine.

Quando era arrivato a Pisa, aveva trovato la battaglia già conclusa e l'esercito fiorentino vittorioso e per lui era stato un sollievo incredibile capire che non avrebbe dovuto combattere di nuovo. Per lo meno, non a breve.

Quando aveva dovuto imbracciare le armi la volta precedente – con Giovanni Medici al suo fianco a infondergli coraggio e dargli sicurezza – era stato orribile e qualcosa in lui era cambiato per sempre. La violenza, che a volte dispensava ancora alle donne di strada con cui si intratteneva di quando in quando, sul campo di battaglia gli si era mostrata con una crudezza che nulla aveva a che vedere con quello che aveva visto e fatto fino a quel giorno. Non si era più trattato di imporsi su un altro essere vivente, sfogandovi addosso la propria rabbia. Si era trattato di prevaricare il prossimo al solo e unico scopo di non essere ucciso.

Ancora assorto nei suoi pensieri, quella mattina, mentre aspettava nel suo padiglione che succedesse qualcosa, il Riario ricevette un paio di lettere.

La prima era del suo amico Ottaviano Manfredi. Lo avvisava che si stava recando nel forlivese per provare a stringere un'alleanza con sua madre, così come Giovanni Medici aveva suggerito appena una manciata di settimane addietro.

La seconda, invece, era di uno degli uomini che Ottaviano aveva sguinzagliato a Imola per tenere d'occhio la ragazza che aspettava un figlio suo. Gli diceva che il bambino – in realtà una bambina, rosea e in salute – era nata e che la madre l'aveva chiamata Cornelia.

Il Riario, dopo aver letto le due missive, entrambe per lui pesanti come un pugno nello stomaco, si afflosciò sullo sgabello da campo e, guardandosi attorno spaesato, trovò la caraffa di vino che si era fatto portare la sera prima, e, senza tante cerimonie, decise di bersela fino all'ultima goccia.


"Sì, avrebbe compiuto quattordici anni." annuì Bianca, rispondendo alla domanda di una delle balie.

Caterina, seduta in poltrona con Giovannino che dormiva pacifico coricato addosso a lei, nella stessa posizione si era spesso assopito sul petto del padre, si ridestò un momento dai suoi pensieri, attirata da quella costatazione.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (Parte IV)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora