Fortunati era ancora così sconvolto per quello che era accaduto da riuscire a mala pena a parlare, tuttavia gli altri quattro lasciarono a lui il compito di spiegare il tutto all'Abate del convento di San Benedetto.
Con immensa fatica erano riusciti a portare il cadavere di Ottaviano Manfredi fino alla chiesa, ma lì si erano dovuto fermare, in attesa di avere il permesso di portarlo al riparo.
L'Abate, quando si vide davanti il piovano con l'abito imbrattato di sangue e il viso pallido come quello di un morto, credette che fosse stato ferito da qualche delinquente lungo la via e gli chiese immediatamente se avesse bisogno di cure.
Francesco, scuotendo il capo con forza, riuscì a balbettare qualche frase che riassunse la situazione all'altro religioso, il quale, vigoroso come in tutte le cose che faceva, non perse tempo e uscì di persona a controllare se ciò che gli era stato detto corrispondeva al vero.
Illuminato dal sole pieno di quel 13 aprile, sotto a un cielo che si era fatto terso come fosse piena estate, in terra c'era in effetti un corpo, straziato e insanguinato, il viso talmente trasfigurato da rendere difficile credere che fino a poco prima quello fosse un uomo.
Con uno sguardo rapido, l'Abate guardò il sentiero e notò la lunga striscia rossa che mostrava il percorso fatto da quegli uomini per trasportare la vittima fino a lì. Circospetto, quasi temendo che qualcuno degli aggressori potesse essere ancora in agguato, fece cenno di seguirlo in chiesa.
Fortunati aiutò gli altri quattro a risollevare il corpo di Ottaviano. Era difficile da spostare soprattutto per colpa dei fendenti che avevano quasi staccato gli arti dal busto. C'era il rischio, si rese conto anche l'Abate, osservando i suoi inattesi ospiti, di perdere qualche pezzo cammin facendo.
"Aspettate... Posatelo qui..." fece il religioso, indicando il pavimento, già immaginandosi la fatica di ripulire il sangue, ma non trovando idee migliori: "Vado a chiamare qualcuno dei miei confratelli... Abbiamo un avello vuoto, lo metteremo lì."
Rimasti soli, i quattro forlivesi e Fortunati si misero a fissare il corpo e poi, nel silenzio quasi irreale di quella chiesa, fu proprio il fiorentino a ritrovare la parola: "Cosa facciamo, adesso?"
"Scriviamo alla Contessa e..." prese a dire uno, stringendosi le mani sporche di rosso l'una nell'altra.
"E che le diciamo? Non è una cosa da scrivere per lettera..." si oppose un altro.
"Dobbiamo andare subito a Forlì e spiegarle cos'è successo." propose un terzo.
"E se lungo la strada ci uccidessero, come hanno fatto con lui?" domandò i quarto.
"Non ci hanno uccisi stamattina, non lo faranno più. Non è noi che volevano..." sussurrò il piovano, chiudendo un istante gli occhi e sospirando.
Quando l'Abate tornò, assieme a una manciata di frati, chiese ai cinque uomini se a loro andasse bene una sistemazione temporanea nella chiesa e nessuno di loro ebbe da ridire.
"Chi era quest'uomo?" domandò il religioso, mentre i suoi sottoposti lo manovravano con cura, per portarlo in canonica, dove l'avrebbero lavato, coperto di balsami e sistemato come meglio riuscivano.
"Ottaviano Manfredi, di Faenza." rispose Francesco, con la voce che tremava appena.
L'Abate deglutì e poi, dopo essersi passato una mano sulla guancia coperta da una fitta barba nera, chiese, per essere sicuro di aver capito bene: "L'amante della Sforza di Forlì?"
Il fatto che perfino un uomo di chiesa, che viveva in un monastero in mezzo alle montagne conoscesse Manfredi più per quel motivo che non per la sua ascendenza, fece scattare una molla, nel cervello di Fortunati. D'un tratto la sua mente iniziò a lavorare in modo diverso, vagliando con maggior oggettività le reali cause che, forse, avevano portato a quell'attentato.
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Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (Parte IV)
Ficción histórica(Troverete le prime tre parti sul mio profilo!) Caterina Sforza nacque nel 1463, figlia illegittima del Duca di Milano e di una delle sue amanti, Lucrezia Landriani. Dopo un'infanzia abbastanza serena trascorsa quasi per intero tra le mura del...