Capitolo 546: Cicero pro domo sua.

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"E vediamo di riceverlo al mattino, se è questo, quello che vuole." cedette Caterina, dopo che il castellano le ebbe fatto sapere che Machiavelli aveva mandato un messaggero alla rocca per chiederle di potersi incontrare presto.

La Sforza disse poi a Cesare Feo di convocare l'ambasciatore a palazzo nel giro di un'ora, perché prima doveva sistemare alcune faccende e rispondere alla corrispondenza.

Era già stufa, del nuovo ambasciatore di Firenze. Non solo le era risultato antipatico fin dal primo sguardo, ma la sua insistenza – come se lei non avesse altro a che pensare, se non alle sue chiacchiere – le stava facendo perdere la pazienza una volta per tutte.

Andò quasi di corsa in camera sua, dove Giovanni da Casale si stava ancora vestendo. Era da poco passata l'alba, ma Ravaldino era già in piena attività. Vedere la lentezza con cui il giovane si infilava gli stivali, fu solo legna gettata nel fuoco già acceso dell'irritazione della Tigre.

Con uno gesto di stizza gli disse: "Sbrigati a prepararti, voglio sia tu a sovrintendere al Quartiere Militare questa mattina. Ho un impegno."

"Il fiorentino?" chiese, con uno sbadiglio, Pirovano: "Cos'ha deciso? Di volerti vedere un giorno sì e l'altro pure?"

"Ha fretta di chiudere la trattativa." alzò le spalle la Sforza: "E non ha capito che invece io voglio prendermi tempo."

"Vengo con te, se vuoi." si propose l'uomo, mettendosi in piedi e arrivandole accanto.

Le mani, che il suo amante aveva premurosamente appoggiato sulle spalle, alla Contessa sembrarono improvvisamente due tenaglie che in qualche modo volessero contenerla, e non due solidi appigli a cui aggrapparsi nella difficoltà.

Non era la prima volta che le succedeva di provare una sensazione del genere. Anche se non riusciva a stare da sola – ci aveva provato, ma alla fine aveva sempre cercato un uomo da tenersi accanto, o almeno qualcuno con cui passare qualche ora di distrazione – quando una relazione iniziava a farsi più seria, la sua anima le riproponeva un'antica paura. Il matrimonio, troppo lungo e troppo costrittivo, con Girolamo le aveva lasciato anche quello spiacevole reliquato: era come se qualsiasi figura assimilabile a un marito o comunque a una presenza maschile stabile, rischiasse di trasformarsi in un limite, in una gabbia, o, ancor peggio, in un nuovo padrone.

Con Giacomo quella sensazione non l'aveva provata praticamente mai, malgrado tutto. Lui era più giovane, più ingenuo, tremendamente più debole di lei. Al suo fianco Caterina aveva sempre avuto l'illusione di essere potente e di poter comandare, senza mai farsi forzare in nulla. Forse non era stato così su ogni fronte, ma almeno su quello sentimentale, alla Leonessa era parso di poter essere la parte forte della coppia.

Con Giovanni, poi, la situazione era stata ancora diversa. Lui era stato un uomo dolce, sicuro di sé, ma mai intrusivo. Era il cuscino ideale, per un carattere spigoloso come quello della Sforza. Con lui la sensazione era quella di fare le cose alla pari, senza lotte di potere, né giochi di forza.

Con Manfredi, invece, si era trattato di un continuo prevaricarsi a vicenda, saggiare il potere dell'altro per cercare di imporsi. Una sorta di guerra continua che a tratti glielo faceva odiare e a tratti la rendeva dipendente da lui.

Con Pirovano, invece, la Tigre ancora non aveva capito come fosse la faccenda e in attimi, fugaci e impalpabili, come quello, finiva per farsi vincere dalla paura.

Anche se con lui era stata chiara fin dal principio, cercando in ogni modo di mantenere ben chiare le loro posizioni – lei comandava e lui doveva ubbidire – in alcuni momenti si sentiva comunque minacciata, anche se, probabilmente, il suo era solo un sentimento irrazionale.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (Parte IV)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora