Capitolo 581: Amoris vulnus sanat idem qui facit.

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Caterina teneva tra le dita la lettera di Fortunati appena arrivatale e guardava un punto indefinito davanti a sé, con una mano davanti alla bocca e una gamba che non smetteva un attimo di muoversi, sintomo del nervosismo che cresceva via via in lei.

Era seduta sulla poltrona che un tempo era stata il rifugio diurno preferito del suo Giacomo e alla scrivania davanti a lei stava Cesare Feo, che, tra il ricontrollare un conto e compilare una pagina del registro, ogni tanto le lanciava uno sguardo un po' preoccupato.

La missiva del piovano era arrivata da circa mezz'ora e, dopo averla letta una prima volta, la Contessa si era chiusa in quello strano mutismo e non aveva più cercato in alcun modo di interagire con il castellano.

Quello che più di tutto occupava in quel momento la mente della Tigre non era nemmeno tanto il sospetto di Fortunati – ovvero che vi fosse qualche spia che tenesse informati i fiorentini riguardo ogni sua mossa – perché di orecchie troppo lunghe e lingue troppo loquaci ce n'erano ovunque e quindi non se ne sarebbe stupita. A colpirla era stata la fretta che le metteva, nella prima parte della lettera, riguardo la necessità di far soldi.

Non era nella natura di Francesco, farsi cogliere a quel modo dal panico. Eppure quelle parole sembravano vergate da qualcuno convinto che le sue frasi potessero fare la differenza tra la vita e la morte.

La donna ripensò ai gioielli che aveva impegnato a Venezia. Non erano molti e non erano i più pregiati. Quelli aveva giurato di tenerli solo ed esclusivamente per i suoi figli. Aveva poco da vendere, a parte le armi, ma quelle le servivano per la guerra che stava arrivando. Avrebbe potuto mandare a soldi i suoi uomini, ma non poteva privarsene, esattamente come per i pezzi d'artiglieria.

Cosa le restava? Opere d'arte, a Forlì, quasi non ce n'erano, e quelle poche erano di proprietà non sua. Alzare le tasse sarebbe stato un suicidio, e pretendere il versamento di un contributo una tantum da parte dei più ricchi sarebbe stato ancora peggio.

Le venne da ridere pensando che se fosse stata una donna raffinata come dicevano fosse Isabella, la moglie di Francesco Gonzaga, magari avrebbe potuto rivendere i propri vestiti, ma i suoi abiti, a differenza di quelli della Marchesa, non erano tempestati di perle e pietre preziose, ma di macchie di sangue delle bestie che cacciava e di polvere del cortile d'addestramento.

Nel vederla trattenere una risata amara, il castellano si accigliò e le chiese: "Tutto bene, mia signora?"

La Sforza richiuse finalmente la lettera di Fortunati e, con un sospiro, si alzò dalla poltrona dicendo: "Tutto bene, Cesare. Tutto bene come sempre."

Il castellano intese ciò che la Tigre intendesse, ma cercò di essere conciliante nel commentare: "Io credo che voi stiate facendo già il meglio che si possa, per questa terra."

"Dobbiamo cercare di trovare qualcuno che ci guardi le spalle..." borbottò tra sé la Contessa, senza ascoltarlo: "Finora mi sono illusa di poter trovare alleati. Forse è venuto il momento di cercare un altro tipo di protezione..."

Il Feo non disse nulla, ma sentendo le campane che ricordavano a tutti l'arrivo del mezzogiorno, posò la penna sulla scrivania e propose: "Io andrei a mangiare qualcosa, così posso riprendere a lavorare presto... Avete fame anche voi?"

Caterina, persa nei suoi pensieri, scosse il capo e disse solo: "Ho bisogno di pensare."

"Mi spiace, ma io non sono d'accordo." disse Alessandro Bentivoglio, incrociando le braccia e guardando in terra: "Non è una cosa che si possa fare."

"Parli così – ribatté il fratello, Annibale, cominciando ad alterarsi – solo perché tua moglie è una Sforza!"

I toni, tra i due giovani bolognesi, si erano alzati a quel modo solo perché il padre non era ancora arrivato. In sua presenza, nessuno dei due osava esprimere in modo troppo aperto i propri pensieri, e, dunque, se non sfruttavano quei momenti di solitudine per confrontarsi in modo schietto, sapevano che non avrebbero avuto altre buone occasioni, prima che lui decidesse del loro destino.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (Parte IV)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora