C491: All'uomo appartengono i progetti della mente,ma da Dio viene la risposta

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 Bartolomeo non era fiero di quel tipo di attacco, ma sapeva che il suo esercito era allo stremo e che cercare di mandare al Creatore il maggior numero di fiorentini possibile era la loro unica possibilità di sopravvivere ancora un po'.

Si parlava di una possibile tregua, ma, di fatto, gli eserciti della Signoria e della Serenissima continuavano a scaramucciare e impegnarsi in piccole battaglie lungo tutti i tratti del confine, con gran scorno delle popolazioni del luogo, che soffrivano più per quel ristagnare di soldati di quanto non avrebbero fatto con una battaglia campale di dimensioni epocali.

Bartolomeo non amava quel modo di fare la guerra. Sapeva combattere in difesa, ma vivere con gli Orsini per anni, gli aveva insegnato ad apprezzare gli affondi e gli attacchi e dunque si sentiva umiliato da quel miserrimo tenere le posizioni.

Venezia era stata incerta, quando lui aveva chiesto ordini precisi e così, senza un chiaro permesso di ripiegare, né approvvigionamenti degni di tal nome, non aveva potuto far altro, per placare la fame dei suoi uomini, se non mettere a sacco Bibbiena e buona parte del pratese.

Bianchino da Pisa, uno dei comandanti di Firenze, era solo finito sulla strada al momento sbagliato.

L'alviano si era confrontato in fretta con Mariano Acio, un altro comandante al soldo di Venezia come lui, ed erano giunti alla conclusione che fosse necessario attaccare Bianchino alle spalle. E così avevano fatto.

Guidando la carica della sua cavalleria, Bartolomeo si lasciò andare a un grido disarticolato. Forse, gli aveva detto il cerusico, la sua lingua non sarebbe mai più tornata quella di una volta. A lui, però, non importava di non riuscire più a parlare in modo scorrevole. La sua spada parlava per lui.

L'impatto con i fiorentini che, vedendosi rincorrere all'improvviso da colonne solide di nemici a cavallo, si erano praticamente abbandonati a una rotta completa, fu violentissimo.

Nella nebbia fredda di quel giorno, il terreno ghiacciato sotto i piedi dei fanti e gli zoccoli dei cavalli si tinse subito di rosso. Bartolomeo colpiva senza quasi ragionare. Era stanco, aveva freddo e fame ed era teso, perché non sapeva come sarebbe finita, quella campagna.

Si concentrò per tutto il tempo solo sugli uomini che si trovava davanti. In sella al suo destriero, mozzò teste e trafisse soldati privi di armatura, colpendoli quasi tutti alla schiena, senza trovare in loro alcuna resistenza.

A un certo punto vide Bianchino da Pisa cadere in terra e poi, aiutato da alcuni dei suoi, riprendere a correre, fino a riuscire a trovare una via di fuga nel bosco.

Quella era un'ottima cosa, per Venezia, e anche per l'Alviano. Tuttavia, quando quella giornata finì e l'uomo poté finalmente sedersi in terra a prendere fiato, il viso coperto di sangue non suo e il braccio della spada che gli doleva, per quanti fendenti aveva calato, si sentì più un boia che non un uomo d'armi, e si vergognò profondamente di sé.

Mariano Acio, vedendolo con gli occhi serrati, mezzo disteso tra l'erba bruciata dal gelo, gli porse una mano e, annuendo gli disse: "Complimenti, Bartolomeo. Questa è stata un'ottima azione. Avete avuto ragione a cercare questo scontro."

L'Alviano fissò la mano del suo alleato, ma non la strinse, restando dov'era. Sputò in terra un grumo di catarro e sangue, e poi borbottò qualcosa che la lingua impastata gli impedì di articolare abbastanza bene da farsi capire.

Un po' deluso per quell'atteggiamento, Mariano fece un sorriso di circostanza e poi passò a complimentarsi con altri.

Bartolomeo lo squadrò con la coda dell'occhio e biascicò tra sé: "Povero idiota.", prima di lasciarsi ricadere del tutto al suolo, lo sguardo rivolto al cielo pallido e il cuore che batteva ancora veloce per lo sforzo.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (Parte IV)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora