Capitolo 469: Vivere militare est

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L'alba era ancora discretamente lontana e il freddo penetrava nella rocca di Ravaldino come la lancia affilata di un soldato nelle carni del nemico.

Come d'accordo, Caterina era andata a bussare alla porta di suo figlio Galeazzo che, all'istante, aveva aperto la serratura e le si era presentato già pronto e ben coperto, con addosso abiti perfetti per la caccia con quel clima.

Si salutarono in fretta, senza bisogno di tante parole e poi andarono alla sala delle armi. La Sforza scelse per sé una spada pesante da una mano e mezzo, la lancia da cinghiale che le aveva regalato Giovanni e un arco. Siccome non aveva idea di che animali avrebbe potuto trovare, con la neve tanto alta, preferiva non farsi trovare impreparata.

Il figlio, quasi imitandola, aveva scelto in modo simile il suo arsenale, optando, però, per un'arma meno difficile da gestire, rispetto alla lancia da cinghiale. Al suo posto, infatti, aveva preso una picca lunga poco più di un metro, più adatta, forse, a un allenamento che non a una battuta nei boschi, ma Caterina non criticò la sua scelta e così il Riario non cambiò idea.

"Devo andare nelle cucine a prendere delle provviste?" chiese Galeazzo, mentre, carichi di ferro, andavano verso le stalle.

"No, non ce n'è bisogno." rispose la Tigre, ogni parola che sollevava un sottile strato di vapore.

"Torneremo prima di mezzogiorno?" chiese allora il Riario, che aveva sperato in una giornata interamente dedicata alla caccia assieme alla madre.

"No, no... Pensavo di stare fuori fino al tardo pomeriggio." ribatté la donna, confermando le speranze di Galeazzo: "Ma le provviste non ci serviranno, perché mangeremo ciò che caccerai tu."

Nelle stalle, la Contessa svegliò uno degli stallieri e si fece preparare due cavalli robusti e stabili.

Avrebbe voluto uscire con il suo stallone preferito, ma non aveva senso rischiare di azzopparlo per niente, non con una guerra in corso. In caso di bisogno, doveva essere pronto e in salute per partire alla carica contro i veneziani o i faentini.

Dopo aver sistemato le loro cavalcature, la Sforza fece un cenno a Galeazzo ed entrambi montarono in sella. Anche il tredicenne, malgrado l'altezza notevole della sua bestia, riuscì a montarlo senza bisogno di aiuto, e questo dettaglio piacque particolarmente alla madre, che gli dedicò uno sguardo d'apprezzamento raro da scorgerle in viso.

Con il buio che premeva ancora su di loro e un cielo carico di nuvole che probabilmente avrebbe portato altra neve, la Tigre e suo figlio lasciarono la rocca e si inoltrarono in breve nei boschi della riserva di caccia privata della Contessa.


Giovanni Bentivoglio si passava nervosamente l'unghia dell'indice sul mento, grattando la barba ruvida che quel giorno non era ancora stata passata a fil di rasoio.

La lettera che gli aveva mandato suo figlio Annibale l'aveva molto indispettito. Non gliene importava nulla dei bagagli perso, tanto meno dei soldati. Con un po' di soldi e pazienza, si potevano ricomprare gli uni e gli altri.

Era piuttosto la figura da fesso fatta da Annibale a bruciargli. Prima di tutto aveva abbandonato il fronte senza averne il permesso, e questo dettaglio, già di per sé era sufficiente a dubitare della sua fermezza. Poi era sceso a patti con la Leonessa di Romagna, una donna dalla quale chiunque si sarebbe atteso un tranello, e infine si era fatto fregare come un pollo e se ne lamentava anche.

Il signore di Bologna guardò svogliatamente la colazione che aveva davanti a sé. Trovava l'uovo troppo cotto e il pane quasi crudo. Perfino il vino gli sembrava eccessivamente amaro e l'acqua aveva un che di torbido che gliela rendeva indigesta.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (Parte IV)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora