Capitolo 471: Per l'amore che le porto.

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Natale era ormai alle porte e Caterina cominciava a chiedersi se Ottaviano Manfredi sarebbe tornato in tempo per festeggiarlo assieme a loro.

L'eco delle sue incursioni nelle campagne faentine aveva scosso nel profondo – almeno così dicevano – Astorre Manfredi e, per quanto quelle mosse paressero necessarie al fine di favorire un colpo di Stato a breve, dall'altro la Sforza cominciava a temere che i Bentivoglio si sarebbero presto mossi per spegnere le loro velleità.

Le pareva strano, soprattutto, che Annibale Bentivoglio stesse soprassedendo in modo tanto composto al furto dei suoi bagagli. L'unica richiesta che era stata fatta, giusto quella mattina, era, per favore, di far avere al signore di Bologna almeno gli effetti personali del figlio. Non si faceva nemmeno cenno ai prigionieri.

La donna era nella sala delle armi, intenta a sistemare un arco la cui corda si era spezzata. Non era un'arma di pregio, ma una di quelle usate negli addestramenti e quindi si fidava ad aggiustarla in prima persona. Fosse stato un arco più costoso, l'avrebbe affidato a un armaiolo.

"Mia signora..." il castellano arrivò davanti a lei quasi senza che la Tigre se ne accorgesse.

Nella sala c'era una mezza dozzina di soldati, alcuni intenti a bardarsi per gli allenamenti di quel giorno e altri che sistemavano spade e lance. Non c'era confusione, ma un soffuso brusio, condito dal rumore metallico del ferro.

"Ditemi." fece Caterina, appoggiando un momento l'arco sul tavolo.

"Messer Manfredi è appena rientrato a Forlì con i suoi e chiederebbe di vedervi. Vi aspetta nel mio studiolo. Lo volete incontrare?" chiese Cesare Feo, che, in cuor suo, conosceva già bene la risposta.

Infatti, ancor prima di rispondergli, la Contessa aveva lasciato il suo sgabello ed era andata a passo svelto alla porta dell'armeria, voltandosi solo per dire: "Fate che non ci disturbi nessuno."

Il castellano strinse le labbra, e, incrociando lo sguardo con il maestro d'armi, che aveva sentito il breve scambio di batture, sollevò le spalle e commentò a denti stretti: "E vedremo di non disturbarli..."

La Tigre, dopo aver attraversato il porticato, era corsa al piano di sopra, le gonne appena sollevate sopra alle caviglie, riuscendo a tratti a fare due gradini per volta, malgrado fossero molto alti.

Quando giunse allo studiolo del castellano e aprì la porta, si trovò davanti Manfredi che portava addosso gli abiti umidi del viaggio. Senza attendere un saluto formale, la donna si tufò tra le sue braccia, trovandole pronte ad accoglierla con una stretta salda.

Lasciò che il faentino la baciasse e poi, allontanandolo da sé quel tanto che bastava per fissarlo negli occhi, gli disse: "Bianca ti vuole parlare."

L'uomo sollevò appena le sopracciglia chiare. Il suo viso era coperto in parte dalla barba vecchia di qualche giorno e in parte dai capelli lunghi e biondi, un po' in disordine per via delle giornate campali appena trascorse.

"Ha deciso di accettare?" chiese lui, di rimando, senza mollare la presa sulla sua amante, anzi, stringendole i fianchi con maggior possessività.

"Prima di decidere vuole parlarti." rispose la Leonessa, restando molto seria e non accennando a distogliere le sue iridi verdi da quelle azzurrissime di Ottaviano.

Il giovane si morse il labbro e guardò altrove, pensoso. Non si era aspettato di dover fronteggiare la figlia della Sforza da solo. Pensava che la ragazzina avrebbe fatto tutto quello che la madre le avesse detto di fare.

"Va bene. Le parlerò già oggi, se per te va bene." concluse il ventiseienne, annuendo piano.

"Magari fallo dopo cena." disse Caterina, pensando a quando fosse un buon momento per sua figlia Bianca: "Vi farò accendere il camino in una delle salette al piano di sotto. Là nessuno vi disturberà."

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (Parte IV)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora