Capitolo 463: Multas per gentes et multa per aequora vectus...

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Bartolomeo sentiva ancora le parole di suo nipote Carlo che gli dava del pazzo. Il dolore che provava ancora all'addome, in parte, dava ragione all'Orsini.

Tuttavia l'Alviano aveva voluto combattere e nessuno, tra gli altri comandanti dei Serenissimi, aveva osato opporsi alla sua decisione. Il cerusico che l'aveva curato l'aveva messo in guardia sui pericoli che la ferita si riaprisse, era troppo fresca, sosteneva, e sarebbe bastato un colpo anche lieve per causare un forte sanguinamento e magari farlo morire.

Bartolomeo si era accorto, nel momento stesso in cui gli veniva posta davanti quella possibilità, che avrebbe preferito mille volte morire così su un campo di battaglia, sotto la neve, le urla della guerra nelle orecchie, piuttosto che dover tornare da Pantasilea Baglioni.

Non aveva nulla contro di lei, ma già il fatto che la sua mente gli stesse riproponendo le immagini confuse della loro prima notte di nozze lo rendeva furioso. Mentre saliva sulla scala adesa alle mura della rocchetta che stavano espugnando, risentire addosso la sensazione vivida e atroce di aver tradito Bartolomea lo rese una bestia.

Con un colpo di reni, che gli fece quasi mancare il fiato dal male che gli procurò alla ferita ancora fasciata, l'Alviano si issò oltre il bordo delle merlature, finalmente in cima alla sua scalata, e, brandendo la spada, trafisse il primo arciere che gli capitò a tiro e da lì, seguito dai suoi, si fece strada buttando giù dai camminamenti soldati e cadaveri.

E in tutto quel dolore e quella rabbia, non vedeva altro davanti a sé se non il viso della Baglioni e il modo in cui l'aveva guardato, quando lui, così ubriaco da stare a mala pena in piedi, si era infilato nel suo letto, per il diletto di quelli che erano accorsi a guardare.

Sapeva che altri l'avrebbero compatito per la sua avversione verso quella nuova moglie. Pantasilea era giovane, non era nemmeno brutta, dicevano anche che avesse modi affabili.

'Ma non è Bartolomea' pensò lapidario il condottiero, tranciando il braccio armato di mazza che stava per calare sulla sua testa.

Aveva quasi raggiunto le scale, e da lì avrebbe poi voluto raggiungere il cuore pulsante di quella rocca e prenderlo.

Diede un grido ai suoi, levandosi l'elmo. La neve stava vorticando così forte che, infilandosi nella celata, gli impediva di vedere anche a un metro da sé. Quello, pensava, era uno dei motivi per cui sarebbe stato sensato interrompere gli scontro almeno in pieno inverno. A lui, in realtà, importava poco, ma gli rodeva pensare che molti dei suoi uomini – tra cui tanti giovani che avevano ancora una vita e degli affetti – sarebbero morti più per colpa di quel clima che della guerra in sé.

Arrivato in fondo alle scale, un energumeno cercò di fermarlo dandogli un pugno in viso con la mano coperta di ferro.

Bartolomeo barcollò. Sentì un subitaneo sapore di sangue e la bocca riempirsi di liquido caldo e viscido. Cercando di non vomitare per quella sensazione che aveva sempre odiato, fina dalla prima volta in cui un colpo sui denti gliene aveva fatto perdere uno, l'Alviano sputò in terra.

Con la coda dell'occhio vide che ben due denti erano caduti nella piccola chiazza di sangue, bianchi come la neve che li circondava, ma non ebbe tempo di pensare a quello che aveva perso con quel pugno, perchè arrivò subito un altro colpo, ancora più forte e quella volta a farne le spese fu la sua lingua.

La sentì stretta tra i denti rimasti, un dolore atroce, quasi o forse più forte di quello che aveva provato nel sentirsi trafiggere la pancia.

Si portò istintivamente entrambe le mani al volto, lasciando la presa sulla spada, mentre i suoi facevano quadrato attorno a lui. Aveva la rada barba completamente inzaccherata di sangue, ma non del nemico, questa volta.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (Parte IV)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora