Capitolo 479: 1499

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 Caterina ascoltava in silenzio il suono del vento che faceva sbattere i fiocchi neve contro l'unica finestrella della Casina.

Aveva sistemato con molta cura il suo stallone nel riparo per cavalli, lì accanto. Gli aveva messo sulla schiena la coperta più pesante che aveva e gli aveva promesso che sarebbero tornati alla rocca la mattina seguente.

Sperava solo che non stesse patendo troppo freddo. Anche dentro alla Casina, malgrado il camino acceso, non faceva per nulla caldo.

Si era seduta sul piccolo letto che stava nel centro dell'ambiente unico illuminato dalle fiamme del focolare. Si era tolta gli abiti umidi e aveva indossato una coperta spessa a mo' di mantello, scaldandosi le mani con un po' di vino caldo, preparato sul momento. Aveva mangiato il formaggio che aveva preso con sé, e cominciava ad avere un po' sonno.

Finì di bere quello che era rimasto nel calice e poi si alzò per posarlo sul tavolo. Si chiese come se la stessero cavando i suoi figli dai Numai. Sperò che nessuno di loro, nemmeno Ottaviano o Bernardino, facessero qualcosa di sconveniente.

Un po' si sentiva in colpa, ad averli lasciati andare da soli, come l'anno prima. Se alla vigilia del 1498 aveva almeno avuto la scusa di voler restare da sola con suo marito Giovanni, quella volta, mentre si entrava nel 1499 sentiva di non avere scusa alcuna. Stava solo scappando. Dai suoi figli, dai suoi Consiglieri, e perfino da Ottaviano Manfredi.

Sentiva il bisogno di allontanarsi per un attimo da tutto quanto, nella speranza di poter rivedere il quadro generale in modo più chiaro, una volta rituffatasi nella mischia. Solo che non capiva ancora se quella fosse un'idea valida o meno. Anche se stava prendendo le distanze, il senso di confusione e solitudine che l'attanagliava non se ne stava affatto andando.

Con un sospiro, lasciato il calice sul tavolo, prese dalla bisaccia il Decameron. Forse trasportare un libro così prezioso a quel modo era da incoscienti, ma lo stesso Giovanni, quando a volte andavano alla Casina, lo infilava in una borsa e se lo portava appresso, per poi leggerlo assieme a letto.

Così, con il tomo in mano, la donna si mise sotto le coperte e iniziò a cercare una delle parti che avevano letto così spesso da finire quasi a consumare le pagine. Mentre sfogliava il libro, però, la sua attenzione fu catturata da una lettera che ne scivolò fuori.

L'aveva lasciata lì lei stessa, ma se n'era scordata. Mettendo un momento l'opera di Boccaccio accanto sé, spiegò di nuovo il foglio arrivato da Bologna e, messasi di nuovo seduta, lo rilesse.

Le riportava con esattezza le parole che il senese Lucio Bellante aveva usato nel dedicarle la sua opera astrologica.

Era una dedica lunghissima, ma la Tigre, come la prima volta in cui l'aveva letta, si soffermò soprattutto su alcune frasi: "Quanto spezialmente la Eccellenza Vostra, la quale, fuor dell'usato donesco, non ha toccata solamente la cima del femminil sesso, se non che l'ha anche innalzato fino alle stelle; cosa rara veramente, e degna di riguardarsi, e d'ammirarsi." lesse ad alta voce Caterina.

Finì il messaggio, in silenzio, e poi, scuotendo tra sé il capo, si stupì una volta di più della strana presa che pareva fare perfino tra gli sconosciuti.

Si era sempre resa conto dell'attrazione che suscitava nella maggior parte degli uomini che l'avvicinavano, e anche dell'ascendente che sapeva avere sui soldati – forse per merito del suo cognome o della sua semplice presenza – ma immaginare che qualcuno non l'aveva mai nemmeno vista si prendesse il disturbo di dedicarle un'opera del genere...

"Innalzato fino alle stelle..." borbottò tra sé, riprendendo parte della dedica: "Si vede che non mi conosci, caro Bellante..." sbuffò, per poi stringere nel pugno la lettera e farne una palla, gettandola con sdegno nel camino acceso.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (Parte IV)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora