Capitolo 606: Hoc est vivere bis, vita posse priore frui.

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"Allora, di che devi parlarmi?" chiese Caterina, prendendo uno sgabello per sé e uno per Alessandro, mettendoli vicino al tavolo.

Mentre la sorella recuperava il vino, il prugnolo e due calici, appoggiandoli senza alcuna cura sul Regno di Napoli, l'altro Sforza fece un sospiro e rispose: "Nulla, volevo parlarti un po'. Sono anni che non ci vediamo."

"Perché sei venuto qui?" chiese la Tigre, versando da bere per entrambi, parlando quasi in modo aggressivo, benché non volesse suonare così: "Galeazzo l'ha fatto perché vuole sentirsi importante, Francesco perché non ha nulla da perdere... Ma tu? Fino a ieri parteggiavi per nostro zio Ludovico, ma adesso l'hai abbandonato..."

Impressionato dalla lucida e tutto sommato corretta valutazione fatta da Caterina sugli altri due, lo Sforza sollevò appena le spalle, accettando il calice, e spiegò: "Perché, secondo me, tu sei l'unica persona rimasta in Italia che possa ancora portare il nostro cognome con onore."

La Leonessa bevve in un colpo solo mezzo bicchiere di vino scuro e poi, mordendosi le labbra, ribatté: "Questo rende bene l'idea di come le cose siano andate male in questi ultimi anni..."

Alessandro non capì se quella della sorella voleva essere una battuta o meno, perciò non rise, né cercò di smentirla: "Hai dei figli molto belli – le disse invece, cambiando discorso – tua figlia è una donna meravigliosa."

"Farà diciotto anni tra una settimana." fece la Contessa, un po' sulla difensiva, quasi volesse dire che Bianca era solo una ragazza.

Il fratello colse la sfumatura della sua voce e così virò sugli altri: "Sforzino... Mi piace il soprannome che gli danno. Sembra un ragazzino sveglio..." si sistemò una ciocca di capelli castano chiari dietro l'orecchio, sorbì ancora un po' di vino e proseguì: "Giovannino è un bambino bellissimo. Peccato sia così piccolo..."

La donna sapeva cosa intendesse dire e si trovava d'accordo. Di certo i francesi sarebbero arrivati a Forlì a breve, magari anche prima dell'inverno, e lei se ne sarebbe dovuta separare per sempre. Per lei, Giovannino, sarebbe rimasto sempre un bambino di un anno e mezzo...

"Galeazzo l'hai chiamato così per nostro padre, vero?" domandò Alessandro, versando ancora da bere a tutti e due.

"Sì." fu la risposta laconica della Leonessa.

"Sembra un ragazzo intelligente." provò a dire l'altro Sforza.

Deglutendo, la Contessa annuì e disse: "Sono molto fiera di lui."

"Di Ottaviano invece non vuoi parlare." riprese il discorso Alessandro, che, in effetti, sapeva che la sorella aveva anche un figlio di nome Cesare, che però non era più a Forlì e che la donna non aveva citato nemmeno per sbaglio.

"Quando lo vedrai, ti renderai conto che..." cominciò a dire lei, ma poi scosse il capo: "Mi preme di più farti vedere Bernardino."

"Il figlio del Barone Feo? Quello ci cui ho visto la statua qui fuori, davanti alla rocca?" chiese lui.

"Sì." quella volta la risposta brevissima e rapida della Tigre fece desistere del tutto l'altro Sforza da proseguire l'indagine.

Aveva saputo – come tutti in Italia – di quello che era successa a Forlì e Imola quando il Feo era stato ucciso. Dal tormento che ancora vedeva aleggiare nelle iridi della Leonessa, poteva capire come i fantasmi di quel passato tutto sommato abbastanza recente fossero per lei ancora vivissimi.

Così, lasciando perdere per un momento la situazione di Caterina, Alessandro preferì portare il discorso sul passato, sulla loro infanzia e sulla loro famiglia d'origine.

"Ma dici che è vera la storia della serva africana?" chiese la Contessa, quando l'altro citò Anna Maria.

"Non vedo perché non dovrebbe..." fece lui, rigirandosi tra le mani il calice, gli occhi che cercavano sulla mappa d'Italia la città di Ferrara, dove la loro sorella era morta ormai da quasi due anni.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (Parte IV)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora