Capitolo 523: Venia dignus est error humanus

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Quel giorno Caterina voleva andare a Forlimpopoli per discutere con suo fratello Piero del da farsi.

Era già il sei maggio e il clima si stava facendo molto mite. Secondo alcuni quello era il preludio a un'estate molto torrida, secondo altri, invece, avrebbe portato una piacevole primavera e poi temperature ideali per i campi.

La Sforza non sapeva a chi credere, ma sapeva benissimo che, qualsiasi fosse stata la decisione del sole e della pioggia, lei avrebbe comunque dovuto assicurarsi buone provviste e un canale sicuro per richiederne altre in caso di necessità.

Ciò che voleva sapere da Piero era la situazione sua personale e della rocca di Forlimpopoli. Anche se avrebbe potuto scrivergli tutto quanto e ottenere libri contabili per far da sé le prospettive del caso, preferiva discutere con lui a quattrocchi. Sapeva che presto anche quel versante sarebbe stato in pericolo e voleva sincerarsi della buona disposizione del fratello.

Era ancora giovane, forse troppo, e non si sarebbe risentita se le avesse detto di non voler votarsi a una causa che pareva persa in partenza. Dunque doveva incontrarlo, per evitare fraintendimenti. E poi voleva anche vedere coi propri occhi lo stato in cui versava la rocca, per decidere se investire ancora nella sua manutenzione.

Infine non aspettava altro che un motivo per muoversi un po' da Forlì. Malgrado il voto fatto alla madonna di Loreto, non era ancora riuscita a sciogliere il dubbio sulla sua sospetta gravidanza. Il suo corpo non le stava dando segni né in un senso, né nell'altro e, col passare dei giorni anche il suo medico personale principiava a non essere più così sicuro di poter dare tutta la colpa alla fatica e alle pressioni esterne. Cambiare un po' aria, forse, l'avrebbe aiutata a non pensarci. Tanto, non poteva farci nulla, quale che fosse la sua reale condizione.

Prima di lasciare Ravaldino, però, la Tigre aveva voluto controllare un paio di cose e, arrivata ai resoconti della scuderia, si ricordò della partita di cavalli che aveva ordinato tramite Leonardo Strozzi in Spagna e di cui, ancora, non aveva avuto notizia.

"Strozzi ci ha mai più scritto, per quei cavalli spagnoli?" chiese, entrando nello studiolo del castellano senza annunciarsi.

Questi sollevò lo sguardo dalla corrispondenza che stava vagliando e scosse il capo: "Né da lui né da nessun altro."

La Contessa sospirò. C'erano momenti, come quello, in cui si rendeva conto che in molti ancora la prendevano sottogamba. Era un po' come se, malgrado tutto quello che era riuscita a fare, nel bene e nel male, la ritenessero ancora solo una ragazzina che giocava a fare la potente.

Con un cenno al Feo, tornò un momento in camera, scrisse una breve missiva per Leonardo Strozzi, avendo cura di chiamarlo 'spectabilis vir et amice carissime', ma arrivando in fondo al messaggio con un chiaro e categorico: 'et quando per la via vostra non potessi essere servita, cercheria qualche altro megio per non restare cum questo scorno'.

Chiusa la lettera, tornò dal castellano e gli ordinò: "Fatela partire subito, per lo Strozzi. Mi sono stancata di aspettare i comodi di tutti. Quei cavalli ci servono e basta."

Cesare annuì e prese il messaggio, per poi domandare: "Posso fare altro, per voi?"

La donna fece segno di no e poi, con un sospiro disse: "Sto andando a Forlimpopoli, devo vedere mio fratello Piero."

"Tornerete per pranzo?" chiese il castellano, valutando come fosse ancora abbastanza presto da permetterle di andare e tornare per quell'ora.

La Contessa avrebbe voluto zittirlo, facendogli notare come quelli non fossero affari suoi. Si sentiva sempre come braccata, come se ogni sua mossa, ogni sua parola e ogni suo atteggiamento fosse costantemente controllato da tutti. Però capiva benissimo il motivo della domanda e così non diede mostra della propria irritazione.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (Parte IV)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora