Capitolo 500: 9 marzo 1499

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 Alessandro VI ricontrollò una volta ancora le firme dei diciassette Cardinali che avevano sottoscritto la bolla con cui sollevava Caterina Sforza e i di lei primi quattro figli maschi dal titolo di signora di Imola e Forlì.

Voleva che tutto fosse in regola, inattaccabile, che nessuno potesse trovare un cavillo per dichiarare quell'atto non valido. Lei sarebbe stata solo la prima. Aveva pronte invettive contro tutti i signori della Romagna e le bolle sarebbero state firmate e sigillate una dopo l'altra.

Aveva voluto fortemente che la Tigre fosse tra le prime, a essere dichiarata un'usurpatrice, perché, a differenza di tanti porporati e di tanti altri potenti d'Italia, lui l'aveva conosciuta e sapeva di cosa era capace.

Quel 9 marzo, con quella bolla, stava cercando di porre fine al regno della Leonessa di Romagna una volta per tutte.

Quando lui non era ancora papa e lei era la moglie dello smidollato Conte Girolamo Riario, Rodrigo aveva avuto ben modo di scontrarsi con la Sforza, e all'epoca ella non era che una donna di vent'anni sì e no. Adesso che aveva sulle spalle altri due mariti, uno squadrone di figli e uno Stato che era riuscita a salvare da rivolte popolari, congiure e guerre... Ebbene, se non avesse dovuto guardarsi da lei, da chi altri avrebbe dovuto?

"Va bene, va bene..." disse piano, al suo segretario: "Abbiamo già scritto a mio figlio?"

L'altro annuì e assicurò: "Una missiva a mezzo staffetta rapida questa mattina, Vostra Santità."

Il papa annuì, stanco, e poi disse che si sarebbe ritirato nei suoi alloggi per qualche ora, per meditare. La verità era che si sentiva appesantito, in quei giorni. L'enormità di quello che stava facendo, spinto, se ne rendeva conto anche troppo, dalla brama di potere di suo figlio Cesare, lo stava quasi schiacciando.

Quello era il momento della verità. Si sarebbero giocati tutto nel giro di pochi mesi. Era giunto il giorno, per i Borja, di fondare un impero o naufragare nel tentativo.

Arrivato nella sua camera da letto, Rodrigo andò all'inginocchiatoio. Non lo usava da mesi. Forse da anni... Piegò le gambe, a fatica, le ginocchia che stridevano sotto il peso del suo corpo appesantito dagli anni. Giunse le mani e chiuse gli occhi. Alla fine, sentendosi ridicolo, in quella posizione, tornò ad alzarsi, seppur a fatica.

Puntando l'indice contro il crocifisso d'oro appeso al muro, l'uomo disse, minaccioso: "Vedi di far filare tutto liscio, tu. Ricordati che io sono il papa, e Dio deve aiutare il suo santo pontefice." e detto ciò, per distendere i nervi tesi di quella giornata, Alessandro VI si mise comodo sul divanetto davanti al camino e, dopo qualche minuto di sonnolenza, si assopì.

Alessandro Orfeo ringraziò con un cenno del capo e si sedette, dicendo poi: "Non c'era bisogno che vi scomodaste a venire fino a qui... Se volevate parlarmi, potevate chiamarmi alla vostra rocca."

Caterina si era accomodata su una poltrona abbastanza comoda davanti al camino, ben prima che l'ambasciatore gliene desse il permesso e, adesso, nel sentirlo parlare a quel modo, i suoi occhi saettarono verso di lui come due dardi.

Sapeva che quell'uomo aveva fatto quella proposta – all'apparenza del tutto innocente – al solo scopo di avere più occasioni di spiare la vita di Ravaldino e, proprio per quello, la Sforza aveva deciso di incontrarlo solo o a palazzo Riario, o in quell'alloggio che era riuscita a fargli ottenere a un prezzo decisamente modico.

"Non preoccupatevi per me. Fare due passi in città non mi fa che bene, e mi permette di mantenere il contatto con la gente." rispose la Contessa, senza inflessioni particolari.

"Non avete paura per la vostra incolumità? Vi ho vista dalla finestra arrivare completamente sola, ma non mi pare accorto, per una donna nella vostra posizione, esporsi a un simile rischio..." fece Orfeo, giungendo le mani in grembo e accigliandosi.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (Parte IV)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora