Capitolo 460: Periuria ridet amantum Iuppiter

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Ottaviano Manfredi non riusciva a prendere sonno. Anche se il viaggio di ritorno a Forlì gli aveva lasciato le ossa rotte e la Tigre l'aveva poi sfinito, il faentino aveva la testa ancora così piena di interrogativi da non riuscire a prendere sonno.

Stava quasi albeggiando, anche se la notte di neve stava lasciando il posto a un cielo livido e probabilmente anche quel giorno di sole non se ne sarebbe visto.

La Sforza dormiva, silenziosa e ferma, quasi più la statua di una dea che una donna, e il suo amante non sapeva fare altro che guardarla.

Il camino era quasi spento e non c'erano altre fonti di luce, a parte le sue tremule fiammelle e il riverbero della neve che rifletteva l'arrivo della nuova mattina.

Mentre la fissava, così inerme e indifesa, a Ottaviano passò per la mente un pensiero improvviso e fulminante. Ripensò alle parole del portavoce veneziano, alle sue promesse e si rese conto che, in effetti, se l'avesse uccisa in quel momento, non solo ci sarebbe riuscito, ma avrebbe anche potuto scappare prima che qualcuno si accorgesse del misfatto e lo catturasse.

Si trattò di un momento di debolezza che fece breccia in una scalfittura appena visibile della sua anima, ma che bastò ad aprire per qualche minuto un vero e proprio squarcio. All'improvviso gli parve che la soluzione a tutte le sue tribolazioni fosse a portata di mano. Tanto vicina che sarebbe bastato un respiro a dargli quello che cercava da anni.

Lentamente, come mosso da qualcuno di estraneo a sé, l'uomo si alzò dal letto. Si passò una mano tra i lunghi capelli e guardò ancora la Contessa, coperta solo in parte dalle lenzuola.

Avrebbe potuto strangolarla. O soffocarla. Ma si sarebbe svegliata e con la sua forza fisica e la sua prontezza avrebbe potuto resistergli e magari arrivare a invertire le parti e passare da vittima ad assassina.

Manfredi si guardò attorno, corrucciato. Avrebbe potuto darle un colpo in testa con il pietrone che usava come fermacarte – probabilmente un pezzo della parte smantellata del palazzo dei Riario – e poi finirla con calma.

Ma non avrebbe mai avuto il cuore di spaccarle il cranio. Era troppo bella, per finire a quel modo.

Alla fine vide il suo pugnale, quello che lei stessa teneva sempre celato tra le sottane, per difendersi in caso di agguato improvviso.

Con mano incerta Ottaviano lo prese per l'impugnatura e poi lo strinse più saldamente, tornando verso il letto. La Tigre era sul lato, mostrando involontariamente tanto la gola quanto il fianco. Un colpo preciso in uno dei due punti e l'avrebbe uccisa come nulla. Doveva solo decidere se insozzare tutto di sangue tagliandole la gola o cercare la finezza e colpirle il rene, facendola morire per un'emorragia interna.

Teso e con la bocca secca, l'uomo si passò una mano sul petto disseminato di cicatrici di ogni forma e grandezza, trovandosi più sudato di quanto avrebbe pensato con quel freddo. Aveva tutti i peli ritti, segno della paura che stava provando.

Era ormai accanto al talamo e stava per sollevare il colpo. L'avrebbe presa nel fianco, in alto, dove il sangue scorreva a fiumi. Così avrebbe sporcato meno e l'avrebbe lasciata lì come fosse davvero la statua di una divinità dannata...

Appena il muscolo del suo braccio guizzò, però, la Leonessa si agitò nel sonno. Paralizzato, Manfredi rimase in attesa. La donna si mosse e borbottò qualcosa, il volto che si corrugava e la fronte che si imperlava di sudore.

Chiamò qualche volta 'Giovanni' e Ottaviano volle pensare che fosse il suo terzo marito e non Pirovano, e poi ripetè in modo ossessivo il nome Ludovico.

Svegliandosi di scatto, saltando a sedere come una molla, Caterina si trovò davanti il faentino con il pugnale sollevato e la sua reazione fu tanto pronta che, anche volendo, Manfredi non avrebbe potuto contrastarla.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (Parte IV)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora