Capitolo 545: La pazienza di Giobbe

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"Non vedo perché dovrei." disse freddo Lorenzo, appoggiando il calice di vino al tavolo e guardando appena la moglie.

"Perché Lucrezia è tua cugina. Una visita non è una cosa così gravosa, in fondo." fece Semiramide, notando con la coda dell'occhio come Pier Francesco che, con i suoi tredici anni e mezzo, era molto sensibile alla tensione che si respirava in famiglia: "Non mi sembra una cosa tanto grave, visto che ha partorito questa mattina... Che ti piaccia o no, è tua cugina e in questi casi il sangue conta più di tutto il resto."

"Mia cugina..." fece il Medici, quasi sputando quelle parole: "La figlia del Magnifico..!" sbottò, dando al termine 'Magnifico' una cadenza del tutto dispregiativa, come se fosse una bestemmia.

"Lei non ha colpa, per quello che ti ha fatto suo padre, tanto meno la figlia che ha avuto." gli fece notare l'Appiani.

"Una femmina..." borbottò Lorenzo, alzandosi dal tavolo, per sottrarsi a quella conversazione, che lo stava facendo arrabbiare già di primo mattino: "Non è stata nemmeno in grado di partorire un maschio..."

Semiramide lo guardò andare verso l'uscita della sala da pranzo, e non provò nemmeno a fermarlo, troppo avvilita da quel commento, gratuito e sgradevole, specie messo in bocca a un uomo che, quando erano nate le loro figlie, Laudomia e Ginevra, ne era stato tanto contento da scoppiare a piangere di gioia.

"Madre..." sussurrò Pierfrancesco, vedendo gli occhi della donna coprirsi da un velo umido.

"Lascia stare, ti prego..." soffiò lei, abbandonando a sua volta la tavola e lasciando il figlio da solo a finire di fare colazione.

"Sì, però, mia signora, io mi sento in dovere di dare ragione a messer Ridolfi." fece Luffo Numai, passandosi nervosamente le mani sulle ginocchia: "Si deve almeno cercare di dare una spiegazione, al fiorentino, non potete pretendere che non se ne abbia, a essere trattato così."

Il Consigliere, il Governatore della città, il castellano, Pirovano e pochi altri scelti, erano radunati nella Sala della Guerra, molti seduti, come Numai e altri in piedi, come Simone, che se ne stava accanto al muro, con le braccia incrociate e lo sguardo scuro di chi pensa che si stiano prendendo solo decisioni sbagliate.

A spiccare, tra i presenti, c'era anche Galeazzo, voluto da Caterina affinché potesse non solo osservare, ma, se necessario, provare anche a dire la sua.

"Prima di tutto, io non devo spiegare niente a nessuno. Firenze ci stava sottraendo denaro senza dircelo e adesso viene a dirmi che erano spese necessarie e che, comunque, mi salderanno solo se mai troveranno abbastanza denaro per coprire prima debito contratti con gente più importante di me." fece la Sforza, senza tono d'accusa, ma fissando Luffo come se anche lui avesse qualche colpa, in quanto stava accadendo.

"Non si è espresso in questi termini..." fece notare Giovanni da Casale, che ricordava molto bene i termini magniloquenti e tutto sommato molto pacati scelti da Niccolò.

"Puoi chiamare una cosa in tanti modi, ma la sua natura resta sempre quella." lo zittì la donna.

"Comunque sia – prese la parola Cesare Feo – a malincuore credo anche io che ci convenga di più provare a spiegare questa vostra richiesta di tempo in qualche modo."

"Per esempio come?" chiese Galeazzo, curioso.

La Tigre non riprese il figlio, per quella domanda. Anche se l'orgoglio la stava pungolando, istigandola a non dar peso ai consigli – anche se molto sensati – dei suoi, trovava che fosse giusto seguire la via scelta dal ragazzino. Forse il suo era stato un quesito nato quasi per caso, ma denunciava una certa intelligenza e, poco da dire, una mente meno incline alle burrasche rispetto a quella di Caterina.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (Parte IV)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora