Capitolo 462: E se tu sarai solo, tu sarai tutto tuo.

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Il Moro aveva ascoltato con un'espressione annoiata il resoconto di Galeazzo Visconti ed Erasmo Brasca. Non lo sorprendeva più di tanto il modo brusco e indisponente con cui il Marchese di Mantova aveva accettato l'incarico di Capitano Generale. Sapeva benissimo che al Gonzaga pesava molto, l'essere tornato agli stipendi di Milano, e, conoscendolo, sapeva anche che sarebbe stato da utopisti aspettarsi da lui dei modi più concilianti.

Se non fosse stato per Isabella, pensava Ludovico, non gli avrebbe nemmeno concesso quel titolo, figuriamoci tutti i soldi che gli aveva promesso...

"Va bene, va bene..." fece il Duca, mentre Erasmo ancora insisteva su come il Marchese avesse mancato di rispetto, nel non volerli nemmeno accoglierli per un momento in casa propria: "Ho capito: Francesco Gonzaga è un uomo impossibile. Però ci servono i suoi soldati, i suoi cavalli e l'alleanza con il suo Stato."

I due diplomatici non osarono dire altro e quando il loro padrone li congedò, si inchinarono e se ne andarono senza dire più nulla.

"Ermes..." chiamò Ludovico, facendo segno al nipote di avvicinarsi.

L'uomo, tanto simile allo zio da poterne sembrare il fratello, mosse qualche passo pesante fino al suo scranno, con il cancelliere Calco che osservava in silenzio i due dalla sua piccola scrivania.

"Hai già parlato a Galeazzo Sanseverino di quella cosa che voglio fare in dicembre?" chiese il Moro, accigliandosi un po'.

Passando la carica che formalmente era stata del Sanseverino al Gonzaga, lo Sforza voleva dare al suo ex genero qualcosa di concreto a cui pensare. Anche se ufficialmente lo teneva a Milano come un parente amato, in realtà le sue perplessità in merito alla morta di Bianca Giovanna non erano mai sparite e così aveva voluto tenerselo vicino proprio per poterlo controllare meglio.

Tuttavia, ora che lo vedeva senza un'occupazione reale, temeva che potesse ricominciare a farsi lusingare da qualcuno che volesse sfruttarlo per ledere il Ducato – magari addirittura i francesi – e dunque andava impiegato in qualche modo per distoglierlo dalla noia, fonte di ogni congiura.

"Non ancora, perché prima ho voluto tastare il terreno con gli ambasciatori, per essere certo che sarebbero disposti a partecipare." spiegò Ermes, a voce bassa.

"Mi raccomando, quello veneziano non è invitato. Siamo in guerra, con Venezia. Non deve vedere le nostre stalle, tantomeno i nostri cavalieri." gli ricordò lo zio.

"Certo." convenne il nipote, ossequioso.

"Ah, e vedi di far sì che il Sanseverino richiami a Milano anche Giovanni da Casale, nel caso in cui sopravviva agli scontri di questi giorni nell'aretino..." soggiunse il Duca, facendosi scuro in volto, la voce appena più aspra: "Deve capire che sono io, il suo padrone, e non mia nipote."

Ermes annuì e Calco, dal suo angolino, sollevò appena un sopracciglio, e la cosa al Moro non sfuggì.

"Lo so cosa pensate, Bartolomeo." fece l'uomo, alzandosi e posandosi una mano sul ventre prominente: "Pensate che è stato un errore davvero grave, da parte mia, mandare quel giovane comandante in Romagna."

"Mio signore..." prese a dire il cancelliere, sollevando appena le mani, come a volersi difendere da quell'accusa: "Io penso solo che messer da Casale sia ben noto a tutti per la sua avvenenza e mandarlo presso vostra nipote..."

Il Duca sapeva di aver commesso uno sbaglio, ma se n'era accorto troppo tardi. Aveva pensato fin da subito che Pirovano avrebbe potuto dimostrarsi una tentazione troppo grande per sua nipote Caterina, ma si era pure detto che, se anche lei l'avesse preso come amante per un paio di notti, non sarebbe poi stato un dramma. Non aveva per nulla calcolato l'ascendente che quella donna sapeva avere sugli uomini che conquistava...

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (Parte IV)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora