Ludovico batteva le grosse dita della mano destra sull'elmo che teneva sul ginocchio. Era sciocco, forse, da parte sua, girare con la piastra pettorale dell'armatura e tutta quella ferraglia inutile addosso. Perfino la spada al fianco gli pareva una forzatura e temeva che portasse molti dei suoi cortigiani a ridergli dietro.
Perfino il domine magister Leonardo, nel vederlo uscire dalle sue stanze, quella mattina, bardato a quel modo aveva trattenuto a stento una risata.
Però il Moro non poteva evitarlo. Voleva che quando il momento fosse giunto, le sue ginocchia stanche e le sue spalle indolenzite sapessero sopportare adeguatamente il peso dell'armatura. Non ci sarebbe più stato tempo, una volta iniziata la guerra, per riabituare il suo fisico a tutti quegli inconvenienti.
Era pur sempre uno Sforza, figlio di suo padre e di sua madre, e non sarebbe certo scappato davanti al pericolo. Voleva se non altro provare a difendersi. Mostrarsi in armi. Far capire al mondo che a Milano c'erano ancora uomini degni del cognome che portava.
Però aveva paura. Una paura folle.
"E quindi... E quindi..." disse, i pensieri che scappavano da tutte le parti, nella sua mente confusa, impossibili da trattenere e da riordinare: "Quindi Lucio Malvezzi ha portato a termine quei lavori..?"
Bartolomeo Calco annuì, ricontrollando la lettera che gli era arrivata da poco: "Ha rafforzato le difese di Bergoglio costruendo casematte e facendo approfondire il fossato. L'hanno aiutato i guastatori di Stradella, quindi direi che possiamo stare tranquilli, riguardo la qualità del lavoro..."
"E quegli uomini che ha mandato al confino..?" domandò il Duca, smettendo di battere i polpastrelli sul ferro e guardando Ermes che, al suo fianco, era impassibile come una statua di sale.
Anche lui, malgrado tutto, aveva ripreso in mano la spada dopo anni. Si era detto che, se proprio era suo destino morire combattendo, era meglio farlo senza farsi prendere per i fondelli da dei maledetti francesi. Ufficialmente, però, aveva solo detto di voler riprendere dimestichezza con le armi al solo fine di poter proteggere lo zio, in caso di necessità.
"Li ha mandati nell'alessandrino. Erano tutti uomini influenti, a Castello di Annone e si erano dettui ostili a noi Sforza – spiegò Ermes, con un piccolo sospiro – li ha divisi, mandandone un po' al Bosco e un po' a Tortona."
"C'è un uomo di mia nipote, al Bosco, non è così?" si informò Ludovico, accigliandosi, ricordando qualcosa circa un fratello dello stalliere che aveva fatto perdere la testa a sua nipote Caterina.
"Sì..." fece il giovane, cauto: "Ma ha lasciato che di questa cosa se ne occupassero i nostri soldati, perché dice di essere solo il proprietario di una tenuta e di non avere più nulla che fare con l'esercito e gli affari di Stato."
Il Moro strinse i denti e, asciugandosi qualche goccia di sudore che scendeva lenta dalla fronte fino alle sopracciglia, borbottò: "Caterina si dimostra inutile anche stavolta..."
Nel sentir nominare a quel modo la sorella, Ermes strinse le labbra, ma proseguì imperterrito: "I prigionieri, secondo Malvezzi, erano in contatto con Gian Giacomo da Trivulzio. Quindi proporrei a Galeazzo Sanseverino di controllare soprattutto i movimenti di quest'ultimo..."
Il Duca agitò un po' la mano in aria, come dire che quello non era affar suo. Aveva dato apposta al Sanseverino il compito di controllare strettamente l'alessandrino e passare in rassegna tutti i castelli e le rocche possibili, proprio per evitare che vi fossero delle spie nemiche.
"Dunque posso far entrare Marco da Martinengo?" chiese alla fine Calco, credendo che il suo signore non avesse altro da dire: "Sta aspettando qui fuori da tutta mattina..."
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Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (Parte IV)
Historical Fiction(Troverete le prime tre parti sul mio profilo!) Caterina Sforza nacque nel 1463, figlia illegittima del Duca di Milano e di una delle sue amanti, Lucrezia Landriani. Dopo un'infanzia abbastanza serena trascorsa quasi per intero tra le mura del...