Capitolo 566: Il processo

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Caterina e il suo seguito di misero in strada presto. Anche se Castrocaro distava poco più di due ore da Forlì, avevano deciso di cercare di farsi trovare nel posto stabilito prima che arrivassero i fiorentini.

Era difficile, comunque, dato che Lorenzo e i suoi erano partiti con larghissimo anticipo, dovendo arrivare da Firenze, ma la Tigre voleva tentare di prendersi almeno quel vantaggio, per quanto poco fosse utile.

Aveva salutato i figli in modo abbastanza frettoloso e aveva dovuto anche alzare la voce con Ottaviano che, incluso suo malgrado nella colonna di uomini che la stava accompagnando a Castrocaro, aveva fatto di tutto per farsi lasciare a casa, ma senza successo.

"Per una volta nella vita che mi servi – aveva detto sua madre, gettandogli il giubetto estivo che il ragazzo ancora non si era infilato – vedi di non farti pregare!"

Così, di malavoglia, il Riario aveva finito di vestirsi e aveva raggiunto gli altri.

Il corteo era composto dai fedelissimi della Contessa, Luffo Numai, l'Oliva, alcuni Capitani, preposti alla sua sicurezza, Spinuccio Aspini, avvocato di parte della donna, e personaggi di spicco di Forlì, interpellati come testimoni. Tra loro spiccava anche Pier Francesco Albicini, in rappresentanza di una delle fazioni più antiche, nonché di una delle poche famiglie nobili che non si erano macchiate di tradimento durante la congiura in cui era morto Giacomo Feo.

Il sole cocente del 14 agosto li aveva accompagnati senza soluzione di continuità fino a destinazione. Le mura della città sembravano quasi scintillare sotto i suoi raggi e, per un breve istante, Caterina ebbe quasi paura, a varcare le porte di Castrocaro, che, per quanto favorevole a lei, era un protettorato fiorentino e quindi formalmente molto più legato al Medici che non agli Sforza Riario.

Tuttavia, dopo essere entrati in città e aver cercato il palazzo in cui si sarebbe tenuta l'udienza, la Leonessa e i suoi ebbero almeno il beneficio di un momento di pausa. I fiorentini non erano ancora arrivati e così loro avrebbero avuto modo di discutere un'ultima volta del da farsi.

La Contessa cominciava a sentirsi via via più tesa. La notte passata insonne le stava pesando più del previsto e il terrore di aver dimenticato qualcosa, nel progettare la difesa, la stava divorando.

Era certa di aver portato con sé tutti i documenti che sarebbero potuti tornare utili. Spinuccio era un legale ottimo, dalla lingua sciolta e dalla mente pronta. I nobili che aveva portato con sé erano stati debitamente istruiti affinché la sostenessero, facilitando il compito a chi avesse dovuto decidere.

Tuttavia c'erano tante cose che non le piacevano. Prima di tutto, un'udienza in territorio praticamente fiorentino la faceva sottostare alle leggi di Firenze, che, inutile dirlo, conosceva poco.

E poi c'era il fatto che non era stato fatto il nome di un giudice. Sarebbe stato presente Giacomo Aldrovandini, che però era chiaramente schierato con Lorenzo Medici.

"Andrà tutto bene." disse piano Luffo Numai, in piedi accanto a lei, posandole un momento una mano sulla spalla: "Siamo pronti. Sappiamo come ribattere. Andrà tutto bene."

Caterina annuì, poco convinta e passò in rassegna tutto il suo seguito. Erano in un salone molto grande e senza sedute, salvo un paio di scranni che, probabilmente, sarebbero rimasti vuoti, o, al massimo, occupati da chi fosse stato incaricato di dissipare il contenzioso. Ottaviano, tra tutti, sembrava quello più in difficoltà. Spostava di continuo il peso da un piede all'altro, occhieggiando a destra e a sinistra come se avesse paura che stesse per capitare qualcosa di tremendo.

"Non attenteranno di certo alla tua vita." gli sussurrò la Contessa, avvicinandoglisi abbastanza da far sentire solo a lui le sue parole: "Al massimo, se a Lorenzo interessa uccidere qualcuno, quella potrei essere io."

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (Parte IV)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora