Cap.480: Colui che comanda deve guardarsi dai giorni che devono ancora venire.

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 Cesare si lasciò cadere sul divanetto imbottito che aveva messo lui stesso davanti al camino. Era stata una giornata insopportabile e pensare che nei giorni a venire sarebbe stato intrappolato in altre questioni ufficiali lo stava facendo uscire di testa.

Si passò lentamente una mano sulla guancia. In quel momento le cicatrice dovute al mal francese non erano troppo evidenti, anche se spesso e volentieri il solo pensiero di averle in volto lo faceva quasi impazzire.

La barba cresceva più rada, dove la pelle era rovinata e quindi, nei momenti peggiori, non poteva nemmeno fare affidamento su quella per mascherare il disastro.

"Che altro c'è?!" chiese, senza nemmeno voltarsi, quando sentì qualcuno entrare nella stanza.

Il suo servo personale gli chiese con tono mesto se per caso volesse del vino, o qualcosa da mangiare.

"No, no..." ribatté il Borja, senza premurarsi di usare il francese per rispondere: "Mangerò a tavola come tutti gli altri. Con la giornata che mi hanno fatto passare, lasciarmi mangiare come un cristiano è un loro dovere. Anche se preferirei mille volte la cucina di Roma a quella di questi barbari..."

Il servo non capì granché di quello che gli era stato detto, anche se colse il messaggio principale, ovvero che il suo signore avrebbe cenato assieme a tutti gli altri.

Rimasto di nuovo solo, il figlio del papa si abbandonò completamente sul divanetto, inspirando un po' a fatica l'aria che gli pareva viziata e polverosa. Avrebbe tanto voluto aprire una delle enormi finestre che davano sul parco, ma fuori stava nevicando e si congelava: sarebbe stata una pessima idea.

Si cavò gli stivali con un paio di colpi secchi e poi, le gambe accavallante, si mise a ripensare a quello che era successo quel giorno. Dall'alba al tramonto, gli uomini di Luigi XII non avevano fatto altro che continuare a chiedergli se Alessandro VI avesse realmente accettato la richiesta del re e se i documenti per l'annullamento del matrimonio con Giovanna di Valois fossero veramente in viaggio.

Cesare, a furia di rispondere di sì a tutti e di profondersi in rassicurazioni, aveva finito per arrivare a sera stremato, intrattabile e con una peculiare idiosincrasia per il francese.

Sapeva bene che i timori del re erano fondati, visto il pasticcio che era stato fatto alle seconde nozze di Anna di Bretagna, risposatasi prima di aver ottenuto l'annullamento e perciò dichiarata bigama... Ma quella volta era stato Innocenzo VIII a combinare il guaio. Il papa, adesso, era un Borja, e i Borja certi errori non li facevano.

Pensare ai matrimoni gli stava dando un vago senso di nausea. Non tanto per il suo. Aveva accettato con un certo fatalismo l'idea di prendere moglie – per altro senza essere lui a sceglierla – e quindi quello lo impensieriva poco. Era il matrimonio di sua sorella Lucrecia a dargli sui nervi.

Le lettere che arrivavano da Roma la dipingevano come la sposa più felice e raggiante della terra, e Cesare, in fondo, sarebbe anche stato contento di saperla così entusiasta, o, almeno, avrebbe dovuto esserlo.

E, invece, pensarla tra le braccia di Alfonso d'Aragona, nel suo letto, mentre i loro respiri di fondevano, come i loro corpi, lo faceva quasi uscire di senno.

Infastidito dalle immagini che si era quasi imposto da solo, si alzò di scatto dal divano, cominciando a camminare, scalzo e nervoso, davanti al camino.

Sua sorella ancora non aveva concepito figli. Lui sperava che non ne concepisse mai più. Sarebbe stata una scusa più che valida per annullare il suo matrimonio con l'Aragona e, se fosse davvero divenuta sterile, avrebbero potuto sfruttare l'assenza di prole per cancellarne un altro e un altro ancora...

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (Parte IV)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora