Capitolo 534: Domus est ubi cor est.

152 15 8
                                    

"Per favore, Chiara, non è il momento..." la voce della Tigre era risuonata così perentoria nel corridoio, che perfino Giovannino, in braccio a sua zia, si fece scuro in volto, visibilmente preoccupato.

La Sforza più giovane, che avrebbe solo voluto parlare alla sorella in merito alla propria situazione, non fece nulla per fermarla, limitandosi a guardarla andare verso lo studiolo del castellano.

Caterina avrebbe voluto apparire un po' più affabile, ma quella giornata era partita male e stava proseguendo ancora peggio.

Evidentemente, a minare la stabilità del suo potere, non bastavano le voci, sempre più opprimenti e incontrollate che ormai la indicavano come unica mandante dell'omicidio di Ottaviano Manfredi – i più fantasiosi, addirittura, la vedevano come esecutrice materiale – e quindi si erano dovute anche mettere delle calunnie da parte dei fiorentini che, in modo più o meno subdolo, stavano sabotando i suoi commerci e riducendo la sua credibilità.

Trovava assurdo quel comportamento da parte di uno Stato che le si era detto formalmente amico, che si era avvalso dei suoi uomini e anche delle sue strade, e che, in cambio, le aveva dato poco o nulla.

Ciò che l'aveva davvero fatta imbestialire, però, era stata un'altra cosa. Dopo che i libri contabili relativi agli ultimi interscambi tra lei e la Signoria erano arrivati da Firenze erano stati subito analizzati con accuratezza dai suoi. Così, nel giro di mezza giornata, Caterina aveva finalmente avuto conferma che gli intermediari fiorentini che si erano occupati delle transizioni tra il suo Stato e Firenze al posto di Fortunati, che in quel periodo aveva delegato ad altri perché a Forlì da lei, avevano truccato i conti, ovviamente a favore di Firenze.

E la cosa più grave stava nel fatto che tra i colpevoli c'era per certo anche Andrea Pazzi, un ambasciatore, un uomo che avrebbe dovuto garantire con la propria integrità l'integrità dello Stato che serviva e rappresentava.

Quando la donna arrivò nello studiolo del castellano, Cesare Feo non c'era. Voleva discuterne con lui perché, a differenza di tanti altri, era capace di stemperarla, quando stava per avere un colpo di testa che avrebbe potuto creare incidenti diplomatici non indifferenti.

Lo aspettò per un po', il resoconto dei contabili stretto in mano. Non riusciva a sbollire dalla rabbia, chiedendosi con che faccia i fiorentini osassero trattarla ancora a quel modo, malgrado fosse la vedova di un Medici, la madre di un Medici, la cognata di un Medici! Ed era anche cittadina di Firenze per matrimonio. Eppure, tutte quelle evidenze svanivano nel nulla, forse cancellate dal fatto che era una donna, o che era una Sforza o, ancora peggio, che era, per la Signoria, solo un'inutile perdita di tempo.

"Perdonatemi, mia signora, non sapevo che mi steste cercando." fece il castellano, entrando nello studiolo e restando un po' spiazzato nel trovarsi davanti la Tigre intenta a camminare nervosamente avanti e indietro.

"Colpa mia che non vi ho fatto cercare." tagliò corto lei: "Leggete qui." disse e gli porse il foglio che stringeva nel pugno.

Cesare dovette mettersi alla scrivania e spianarlo per un paio di minuti, prima di poter decifrare cosa vi era scritto. Man mano che leggeva, la sua fronte si corrugava e la sua testa si scuoteva lentamente, in segno di incredulità.

Quando ebbe concluso, guardò la sua signora e chiese: "Che intendete fare?"

"Fosse per me, marcerei su Firenze oggi stesso!" sbottò la Leonessa.

Il castellano la lasciò fare, mentre si perdeva in una sequela di volgarissime bestemmie e improperi di ogni sorta. Sapeva che se aveva modo di sfogarsi a quel modo, poi recuperava un minimo di senno.

Lo infastidiva sentire una donna così bella parlare in modo tanto scurrile, ma meglio qualche imprecazione colorita che una guerra scatenata solo per orgoglio.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (Parte IV)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora