Capitolo 470: Orgoglio

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Ottaviano Manfredi si passò un pezzo di straccio sul volto. L'aveva bagnato con un po' di neve, e così poté finalmente lavarsi un po' il viso, su cui erano rimasti i segni dell'ultimo scontro a cui aveva partecipato.

Guardò il cielo livido e si chiese con un velo di rabbia perché mai nessuno accennasse a interrompere gli scontri in quella stagione. Le ore di luce erano poche e il freddo rimordeva le ossa di quelli che dovevano marciare nella neve. Morire in mezzo al ghiaccio, pensava, non era certo una bella morte. Forse essere ucciso sotto il sole d'agosto era ancora peggio, ma almeno si moriva più in fretta.

Aveva visto con i suoi occhi soldati feriti che si dissanguavano a rilento, rendendo l'anima a Dio anche in alcune manciate di minuti, con quel gelo, mentre, in piena estate, sarebbero morti in pochi istanti.

Era seduto su un tronco secco. L'aveva pulito per bene, prima, per evitare di inzaccherarsi le brache. Finito di ripulirsi la faccia, era passato alla spada. Ne aveva dovuto infilzare solo due, quel giorno, ma i Serenissimi parevano sanguinare come maiali sgozzati. Si era sporcato meno nel corso di certe battaglie...

"Mio signore – lo raggiunse uno dei pochi soldati che lo avevano seguito il quella serie di incursioni nel faentino – allora avete deciso di tornare a Forlì?"

Manfredi prese il pezzo di carne che l'uomo gli stava offrendo. Alcuni dei contadini che avevano sollevato dalla presenza dei veneziani avevano offerto loro un capretto e così l'avevano subito macellato e cotto sul fuoco.

Azzannò un grosso pezzo di carne e poi, con la bocca ancora piena, disse: "Ancora un paio di azioni. Voglio essere sicuro che quasi tutta la parte meridionale del territorio di Faenza sia pronto a stare con noi. E poi torneremo a Forlì. In tempo per Natale."

Il soldato non riuscì a trattenere un sorriso. Aveva voglia di dormire di nuovo in un letto comodo e di avere la certezza di due pasti al giorno. Sapeva che la Tigre avrebbe ripagato tutti loro con vitto e alloggio, perché quella serie di azioni erano volte a indebolire Astorre Manfredi, al fine ultimo di evitare la consegna forzosa di madonna Bianca al suo sposo.

"Sarà il Natale più bello di tutti." gongolò l'uomo, già sognando il succulento pranzo che avrebbe fatto, una volta rientrato in città.

"Sperando che non sia l'ultimo." fece eco Manfredi.

"Questo è sottinteso." sorrise l'altro, non cogliendo la vena mesta nella voce del suo comandante.


Da quando erano ritornati nel cuore del bosco, sia Caterina sia Galeazzo avevano parlato pochissimo. Stavano per rinunciare a trovare una preda degna di tal nome, quando la donna intravide un'ombra scura nella neve.

Alzò una mano, facendo in modo che anche suo figlio facesse fermare il cavallo. Con un dito guantato sulle labbra, smontò di sella e lui la imitò. Legarono le loro bestie all'albero più vicino e poi la Sforza prese dalla sella la sua lancia da cinghiali e la spada.

Ci pensò un momento e poi, decidendo che era l'occasione per mettere davvero alla prova il valore di Galeazzo, porse a lui la lancia e lei si tenne la spada.

Avanzarono con passo calibrato per qualche metro e poi, prima che la Contessa riuscisse a individuare il punto esatto da cui era arrivato, un grosso cinghiale prese a correre in loro direzione.

O, meglio, in direzione di suo figlio.

Nell'avanzare, i due si erano un po' separati e, anche volendo, con la neve così alta la Leonessa non sarebbe riuscita a raggiungerlo in tempo per colpire la bestia al posto suo. Sperò solo che la sua fiducia in lui non fosse mal riposta.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (Parte IV)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora