Capitolo 487: Properare in iudicando est crimen quaerere.

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 La riunione del Consiglio ristretto della Contessa era finito a ora molto tarda.

Caterina, accompagnata dal figlio, aveva deciso comunque di andare nella sala dei banchetti per mettere qualcosa sotto i denti, anche se, più ripensava a quanto era stato detto e deciso, più sentiva lo stomaco chiudersi.

Anche Galeazzo appariva molto pensieroso, ma la Tigre non poteva biasimarlo. Era appena un ragazzo, ma poteva capire benissimo la delicatezza della situazione in cui si erano venuti a trovare.

Certo, rispetto a lei aveva molte meno preoccupazioni, ma era comunque un bel carico, per un tredicenne.

Mentre cercava di cacciar giù a forza qualche pezzo di carne – che, malgrado fosse ottima e cucinata come sempre alla perfezione, alla Sforza pareva stopposa e del tutto insapore – la Leonessa si perse di nuovo in ragionamenti che la spaventavano molto più di quanto osasse ammettere.

Durante la riunione alcuni che conoscevano discretamente bene Corbizzi e la storia della sua famiglia, avevano ipotizzato che quell'omicidio fosse scaturito semplicemente da una vendetta personale.

Anche se non c'erano prove certe, infatti, le chiacchiere di paese sostenevano da parecchio tempo che il castrocarese avesse avuto una parte molto importante in una morte misteriosa di un faentino, pare un suo rivale in affari, forse, e che questi avesse un figlio dal sangue abbastanza caldo da poter architettare quell'aggressione.

Alla Contessa quella versione dei fatti, però, pareva un po' campata per aria. Le sembrava qualcosa di premeditato e non di improvvisato, dunque l'assassino – o il mandante – doveva essere qualcuno che aveva saputo per tempo che Corbizzi era stato da lei e che stava tornando verso casa disarmato, senza scorta e perfino appiedato.

In più, il fatto che fosse stato ucciso in territorio forlivese, rafforzava i suoi sospetti, sempre più realistici, per quanto truci e disperati.

Dopo qualche altro boccone, la Leonessa capì che non sarebbe riuscita a mangiare altro. Bevve qualche calice di vino, più per restare a far compagnia al figlio che altro, e, nel frattempo, continuò a rimuginare, focalizzandosi su due dettagli in particolare.

Prima di tutto, sull'accento faentino di colui che aveva guidato l'agguato. E, secondariamente, sulla strana assenza di Manfredi alla rocca, dopo che Corbizzo aveva lasciato Ravaldino. Mettere insieme le due cose causava un vago senso di nausea a Caterina che, di rimando, cercava di non collegare le due informazioni, ma senza troppo successo.

Era stata stata proprio quella sensazione sgradevole a convincerla, durante la seduta di Consiglio a decidere di emanare, il giorno successivo, in seduta consiliare, un editto che punisse la vendetta personale come un reato a pieno titolo. Aveva deciso che avrebbe tenuto un breve discorso, dicendosi rattristata e disgustata dall'omicidio di Corbizzi e sperava che, aggiungendo l'editto alle parole, prendendo, insomma, una così ampia distanza dai quel fattaccio, nessun altro avrebbe sospettato di Manfredi.

Però, nel frattempo, voleva sapere la verità. E si domandava se avrebbe trovato il coraggio di cercarla.

Quando Galeazzo finì la sua razione di stufato, la madre si alzò da tavola e lui la seguì. Percorsero il corridoio e le scale l'uno accanto all'altra, senza parlare, e alla fine, quando venne il momento di dividersi, si salutarono con un cenno del capo.

La cosa che colpì la Tigre, in quel modo di atteggiarsi di entrambi, fu la mancanza di disagio nel potersi relazionare anche senza spendere troppe parole di prammatica. In quel senso, la sua fiducia nel figlio come suo possibile erede, cresceva. Le somigliava molto, ma gli mancava la sua tendenza agli eccessi e la sua impulsività. Con un po' di fortuna, sarebbe diventato un signore giusto e coraggioso, amato dal popolo e abbastanza forte e capace da essere temuto dai nemici.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (Parte IV)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora