Capitolo 632: Uror amore mei...

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"Quindi siamo sicuri?" aveva chiesto Cesare Borja, nel momento stesso in cui aveva incontrato Achille Tiberti: "La città ha votato per la resa?"

"Sì, hanno votato per la resa." aveva assicurato il cesenate.

Il figlio del papa non aveva voluto sapere altro. Quello che gli premeva era prendere formalmente la città, tutto il resto era secondario, quel 24 novembre. Non gli importava nulla di un certo Corradini, Governatore di Imola, che era stato incarcerato pochi giorni prima, suscitando l'ira del popolo. Non gli importava nemmeno che la rocca fosse ancora in mano di Dionigi Naldi.

Il primo colpo da dare era farsi eleggere in modo ufficiale nuovo signore della città e far sì che si sapesse ovunque.

Così, dopo aver mandato i suoi a informarsi circa le modalità di investitura vigenti a Imola, e aver scoperto che gli sarebbe bastato farsi consegnare pubblicamente le chiavi e correre la piazza.

Il Borja aveva accettato volentieri la prima parte del cerimoniale, pensando, anzi, che sarebbe stato molto bello, vedersi porgere le chiavi di una città che era diventata sua senza che lui dovesse muovere un dito. Sulla seconda parte, invece, aveva avuto qualche cosa da ridire.

"Piove ancora a dirotto..." si stava lamentando, mentre finivano di vestirlo per la cerimonia: "E fa già buio. È troppo rischioso. Potrebbe azzopparsi il cavallo o qualcuno potrebbe approfittarne per farmi del male."

Vitellozzo Vitelli, che aspettava, assieme a Tiberti, che il Valentino fosse pronto per dare inizio a quel siparietto che sarebbe servito a legittimare il Borja, dopo quell'esternazione – l'ultima di una lunga serie – sbottò: "Se non la piantate di lamentarvi, giuro che vado a correre quella piazza al posto vostro!"

Cesare finse di non averlo sentito, e, mentre gli sistemavano l'ultimo pezzo di armatura da parata, chiese, accigliandosi: "E i cannoni di Naldi? Sono ancora tutti puntati su di noi?"

"Sì." annuì Achille, che, in effetti, si era chiesto come mai ancora non fosse partito nemmeno un colpo.

"Mi raccomando, che sappia il più tardi possibile che la popolazione ha scelto noi." fece il Duca di Valentinois, dimostrando ai presenti di avere più acume di tutti loro messi assieme.

Finita la lunga vestizione del nuovo padrone di Imola, tutti quanti si spostarono sul palchetto coperto che era stato allestito in brevissimo tempo dai soldati di Tiberti. Cesare sembrava un re, sia per l'eleganza, sia per il cipiglio con cui prese le chiavi.

Gli imolesi, orfani da tempo di una figura potente a cui far riferimento, dato che la Tigre, negli ultimi anni, si era sempre ben guardata dall'andare a soggiornare a Imola, anche solo per qualche settimana, erano rapiti dall'immagine di quel ventiquattrenne alto e slanciato, vestito di seta e coperto da un'armatura dorata e così finemente decorata da farlo sembrare una statua.

Erano le quattro del pomeriggio e sembrava già notte. La pioggia batteva senza tregua, ma malgrado ciò nessuno sembrava intenzionato ad andarsene finché il Valentino non si fosse messo in sella, correndo la piazza e dimostrando a tutti di avere in pugno la città.

"Io non cavalco, con questo tempo." borbottò il figlio del papa, quando gli venne suggerito dai suoi ufficiali di procedere con quella parte importantissima della cerimonia: "Non voglio spezzarmi l'osso del collo per una questione del genere."

Quando il pubblico intuì che la parte più succosa dello spettacolo non ci sarebbe mai stata, però, Tiberti cercò di convincere il Borja: "Voi non conoscete la gente di qua... Basta poco per perdere il loro favore... Se non farete quel che si deve, loro..."

"Proclamo una notte di festa!" gridò a quel punto Cesare, che non aveva alcuna intenzione di farsi dire da quella cornacchia dal naso adunco di Achille che cosa dovesse o non dovesse fare: "Si ceni al mio nome e si beva! Offrirò vino e cibo per tutti!"

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (Parte IV)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora