Capitolo 457: Ducunt volentem fata, nolentem trahunt

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Cavalcare con quel tempo impietoso si stava dimostrando per Bernardino – e anche per Galeazzo, che condivideva la sella con il fratello minore – una bella sfida.

Giovanni da Casale, che stava sul suo grosso cavallo da guerra accanto alla Contessa, che montava il suo stallone preferito, li osservava di quando in quando e si tratteneva a stento dal commentare.

Secondo lui tirarsi dietro due ragazzini era solo un impiccio, ma non aveva osato far presente alla Tigre la sua impressione. E poi, doveva ammetterlo, per il momento nessuno dei due figli della Sforza stava dando problemi.

"Quindi direi di piazzare almeno na squadra qui." indicò Caterina, il bordo del mantello tirato su fino al naso per ripararsi dal vento gelido e gravido di neve.

Pirovano guardò verso il punto indicato dalla sua signora e convenne: "Appena prima del limitare del bosco, come avevo ipotizzato anche io..."

Il giro di ricognizione durò quasi tutto il giorno, e quando i quattro rientrarono alla rocca, Galeazzo e Bernardino erano gelati fin nelle ossa e, per quanto ancora molto orgogliosi di essere stati al seguito della madre per una cosa così importante, preferirono ritirarsi in fretta per andare a scaldarsi.

Caterina, salutati i figli, andò nella sala delle armi, seguita da Pirovano, e riposa la spada che aveva preso con sé per sicurezza.

Giovanni fece altrettanto con le armi che teneva al fianco e poi, mentre il maestro d'armi passava distrattamente alle loro spalle, sussurrò alla donna: "Pensate che le difese così schierate potrebbero bastare a difenderci, in caso di attacco diretto?"

La Contessa sospirò e ribatté: "Se trovate una soluzione migliore..."

Pirovano strinse i denti. Da qualche giorno il modo sfuggente in cui Caterina lo trattava lo stava mettendo a dura prova. Già quello che c'era tra loro – perché lui era certo che tra loro non ci fosse solo attrazione fisica – lo confondeva, in più quel continuo altalenare della Tigre nel dargli prima del voi, poi del tu, poi di nuovo del voi...

"Io lo so che sono di umili origini." iniziò a dire Giovanni, fermandola, tenendola per un braccio.

In quel momento nella sala delle armi c'erano di nuovo solo loro due. La Contesa lo fissava in silenzio, chiedendosi che mai significasse quell'incipit.

"Io sono nato come un pezzente e se non fosse per voi Sforza, sarei rimasto un pezzente." riprese l'uomo, parlando a voce bassa, gli occhi scuri che, malgrado la serietà del momento, non riuscivano a stare fermi sul viso della Leonessa, ma continuavano a scendere più in basso, dove l'abito un po' scollato lasciava intravedere le sue forme: "Devo tutto a vostro zio Ludovico, ma sono pronto a rinnegarlo, se dovrò farlo per seguire voi."

"Io non vi ho chiesto di fare nulla di simile." lo freddò la Tigre.

Giovanni si morse il labbro e chinò un po' il capo: "Non compatitemi."

Quel tono e tutto ciò che quella richiesta sottintendevano, alla Sforza ricordarono troppo da vicino quelli che un tempo erano stati propri anche di Tommaso Feo e la cosa non le piacque.

Accarezzò lentamente la guancia coperta di barba scura dell'uomo e poi gli disse, cercando di sviare il discorso: "Se hai umili origini, non devi vergognartene. Io sono una figlia illegittima, ma ne ho fatto una forza, non una debolezza."

"Non siamo tutti uguali." commentò Pirovano, tornando a guardarla negli occhi.

Nel trovarselo tanto vicino, illuminato dalle torce della sala delle armi, Caterina sentì prepotente il desiderio di farlo suo. Quel suo modo di aprirsi con lei, un po' ruvido, forse, e maldestro, le aveva aperto una vecchia ferita nel petto.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (Parte IV)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora