Capitolo 631: Pelle moras.

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A un calcio ne faceva seguire un altro, senza fermarsi, senza provare nulla, se non una cieca e sorda rabbia. Il volto del figlio di Marco Antonio Giuntino era irriconoscibile, tramutato in un insieme confuso di sangue, denti e carne. Eppure respirava ancora.

Sentiva i propri muscoli dolore, ma non fu quello a frenarla. Smise di colpire per scelta, per non uccidere, per dimostrare a se stessa di essere più forte del proprio istinto. Era stata solo difesa, ma non voleva eccedere, voleva essere sicura di potersi fermare, se se lo imponeva.

L'odore di umidità e di sangue che le riempiva le narici le dava quasi la nausea, ma la consapevolezza di non aver ucciso a calcio il giovane uomo che le stava davanti le permetteva di respirare a pieni polmoni.

Tuttavia, quando si chinò verso di lui, sotto la luce accecante che riempiva la cella, invece di un carcerato ferito, ma vivo, trovò solo un cadavere, già freddo e putrefatto.

Ritirandosi preda dell'orrore, la Tigre gracchiò: "No! No! Stavolta mi sono fermata! Non l'ho ucciso! No!"

Avvertendo la pressione di una mano sulla spalla, la donna sollevò lo sguardo e si trovò dinnanzi un profilo che non aveva dimenticato e che, probabilmente, non avrebbe scordato mai: Ludovico Marcobelli.

"Non l'hai ucciso subito come hai fatto con me, ma è come se l'avessi fatto." le disse, con tono beffardo: "Non crederai che ferito a quel modo sia sopravvissuto, una volta tornato in cella..."

"No!" gridò ancora Caterina, ritraendosi: "Non l'ho ucciso!"

Nell'alzarsi di scatto e indietreggiare, la Sforza andò a sbattere di schiena contro qualcosa, o, meglio, qualcuno.

Presa da un panico che non ricordava di aver mai provato, si rese conto di essere appena finita tra le gelide braccia di Giacomo. Non era, però, il ragazzo che aveva amato alla follia, ma un corpo esanime, sventrato, il volto sfatto, una gamba spezzata, con l'osso rotto che usciva dalle carni come una bandiera, bianco e luccicante...

"Hai ucciso anche me." stava dicendo quel mostro, la voce distorta, diversissima da quella con cui il suo Giacomo le giurava sempre il suo amore.

"No!" urlò di nuovo la Leonessa e poi, all'improvviso, si svegliò.

La prima reazione fu quella di allontanarsi dalle braccia – calde e accoglienti, stavolta – che la stavano stringendo. Poi, però, capendo che il giovane che tentava di calmarla era quello con cui aveva passato la notte e non un altro incubo da cui scappare, la Contessa provò a tranquillizzarsi.

Era sudatissima, agitata, tremante. Il sogno era stato così vivido da essere ancora presente alla perfezione nella sua mente.

"Chiamavi Ludovico Marcobelli, e poi Giacomo..." disse piano il ragazzo del postribolo, continuando a fornirle un sostegno di cui sembrava avere disperatamente bisogno: "Non volevo svegliarti, ma..."

"Hai fatto bene..." sussurrò Caterina, affondando il viso contro il suo petto: "Dovevi farlo prima, anzi..."

Quando fu certa che le mani non le tremassero più, la donna si mise seduta sul letto. Dalla luce fioca che filtrava dalla finestra, intuì che dovesse essere già mattina o quasi. Il rumore scrosciante della pioggia, poi, le tolse ogni dubbio sul tempo che avrebbe fatto quel giorno.

"Forse dovresti andartene." disse piano, mentre, massaggiandosi le dita, si accorgeva di aver accidentalmente lasciato un po' di sangue secco sotto il nodo nuziale.

Nella fretta e nella confusione mentale della sera prima, quando si era pulita le mani non si era tolta l'anello – e c'era un motivo molto preciso, ovvero il voler illudersi di sentire il suo Giovanni ancora vicino, anche un momento simile – e quello era il risultato.

Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo. (Parte IV)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora