Dottoressa

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«Avremmo potuto evitarlo, se almeno stavolta mi avessi ascoltato.» Borbotta per l'ennesima estenuante volta Shawn.

«Lo hai già detto.» La voce atona non le risparmia un altro maledetto grugnito. «E io mi sono già scusata.» Ma ha come la sensazione che non basterà. Non basterà né adesso nella sala d'attesa, né fra qualche anno, quando commetterà una sciocchezza -tipo dimenticare il pane, o cuocere troppo il pesce-. Lui sarà sempre pronto a rinfacciarle quell'errore come se fosse solo il primo di una lunga serie.

«Si, certo. Peccato che le tue scuse non servano a suturarmi il braccio.» Sbuffa arrogante.

Camila adocchia di sottecchi il graffio che Shawn non ha smesso di comprimere per un secondo. Il suo gatto, in quinta elementare, le fece una ferita più profonda, ne è sicura, ma anche se lo glielo dicesse non ostacolerebbe la sua tragedia, quindi scuote la testa e ruota la testa verso il lato opposto, sperando che basti quello per non farla sbottare.

Gli infermieri passano dai corridoi senza degnarli di uno sguardo. La polizia ha già provveduto a raccogliere i loro dati personali. Hanno anche chiesto di poter contattare dei famigliari. Shawn ha sottolineato due volte il suo nome e ben quattro, quattro volte che alla guida c'era la sua fidanzata: sapeva che suo padre si sarebbe prima chiesto se toccasse a lui pagare le spese legali che conoscere lo stato vitale del figlio. D'altronde non era solo colpa sua se era cresciuto tanto ottuso.

«Shawn Mendes.» Camila serra la mascella. Per un istante crede di poter imbrattare -vuole farlo- il camice della donna che scandisce quel nome per la centesima volta nell'arco di poche ore.

Shawn balza in piedi e bofonchia qualcosa mentre si allontana. Dal suo passo pesante e iroso non ci vuole molto ad indovinare cosa.

Camila tira un sospiro di sollievo. Il suo torace era rimasti intrappolata sotto un pezzo di plastica quando  l'auto ha sbandato, ma solo adesso sente di poter respirare. Il silenzio quasi l'addormenta. Sa di essere egoista, perché nella stanza accanto, con molta probabilità, qualcuno sta lottando fra la vita e la morte, e sa anche che sarebbe potuta essere lei quella persona, ma non può fare a meno di sorridere mentre si appoggia contro il muro alle sue spalle. C'è un silenzio confortante che durerà, se è fortunata, mezzo secondo, però è sufficiente. Può accontentarsi. Sa farlo da tanto tempo.

«Cabello?» La voce melliflue dell'infermiera le schiude le palpebre. È sola nella sala d'attesa, il che non sa dire se sia un bene o un male, sa solo che ora è il suo turno e farà meglio a sbrigarsi.

Afferrare una giacca non è mai stato così difficile. Le duole ogni muscolo del corpo ad ogni minimo movimento, ma i medici le hanno già spiegato che si tratta solo di ematomi perché gli esami sono perfettamente in regola. Sono solo lividi. Passeranno. Per questo si sorprende quando l'infermiera, invece di guidarla verso l'uscita, svolta sul corridoio che si ramifica verso gli uffici medici.

«Sono già stata qui. È tutto ok.» Minimizza la ragazza, sperando che la sua voce stabile non venga tradita dalla camminata sbilenca. L'infermiera è troppo impegnata a sbarazzarsi di lei il prima possibile, visto che il suo cerca persone non fa altro che trillare.

«È solo una visita di controllo e poi hai finito.» Risponde lapidaria, soffermandosi di fronte ad una porta.

«Non ce ne è bisogno, davvero. Posso firmare per andare via. Mi sento alla grande.» Bugia, la rimprovera il suo subconscio, anche se l'espressione coriacea della sua guida turistica in camice azzurro bastava e avanzava.

One shot CamrenDove le storie prendono vita. Scoprilo ora