Avevamo promesso che l'ultima volta sarebbe stata davvero l'ultima. Erano bastate quattro settimane per capire che avevamo mentito. Prima a noi stesse e poi l'un l'altra. La verità é che non avevamo niente di cui scusarsi, perciò era difficile sentirsi colpevoli. Più facile era ricordarsi di esserlo. Non potevamo aggirarci per gli scaffali del supermercato senza che qualcuno alzasse lo sguardo dalla lista che stringeva fra le mani. Era impensabile presentarsi a scuola senza essere essere considerate la lezione che in realtà andava studiata meglio della matematica. Nemmeno i corridoi casalinghi erano inviolato da occhiate torve. Trattenevo il fiato ogni volta che dovevo spostarmi dalla camera al bagno. Lei teneva lo sguardo basso sul piatto anche quando, a cena finita, restava vuoto. Tutto quello che avevamo fatto, ma soprattutto tutto quello che eravamo state prima dei nostri diciassette anni, venne irrimediabilmente cancellato dalle menti comuni. Io e Camila divenimmo due persone con un volto, ma senza identità. Proprio come accadeva nei manicomi, non venivano più riconosciute per nome, bensì per "malattia". E la nostra era l'amore.Non credevo di voler baciare qualcun altro oltre Ryan, il capitano della squadra di baseball. Poi mi baciò davvero e capii che a desiderarlo erano le mie amiche, non io. Al massimo aspettavo quel momento solo per poterlo raccontare, ma se per narrare una storia non ci fosse bisogno di viverla, io non l'avrei vissuta. Camila non chiese niente riguardo quel bacio, non chiese niente su Ryan né prima né dopo quello che ci unì e separò per sempre. Quando le altre lasciarono il bar lei restò e mi domandò se sapevo ancora pattinare. Dissi di sì. Mi portò ad un parco e restò a guardarmi tutta la sera correre e cadere. Avere le ginocchia sbucciate mi trasmetteva più felicità delle labbra di Ryan. Mi dava più felicità di qualsiasi labbra e di qualsiasi Ryan sarebbero giunti nella mia vita. Anche lei lo sapeva, ma non diceva mai quello che già conoscevamo da uno sguardo. Il più delle volte le parole, con lei, erano un sovrappiù. Da quel giorno guidava fino al parco ogni volta che baciavo un ragazzo e mi ricordava perché preferivo strinarmi la pelle piuttosto che inumidirmi le labbra: perché quelle striature rossastre derivavano da un'emozione che nessun ragazzo avrebbe mai potuto farmi provare.
Non ricordo quando mi baciò. Se mi avvicinai io o se fece il passo da sola. Non ricordo se fosse venerdì o sabato, ma sicuramente non domenica e nemmeno giovedì. Non mi feci molte domande sul momento. Tu tutto talmente naturale da non abbisognare spiegazione. Era come se lo avessimo sempre fatto, magari in un altro modo, con altri tempi, senza necessità di sfiorarci per percepire il sapore sulla bocca. Ma forse non avevamo mai davvero smesso. Ancora oggi mi chiedo se sia sentita tradita da tutti i ragazzi a cui ho concesso quello che in realtà riservavo per lei. Non mi sono mai chiesta il contrario, e questo magari non dice nulla sul sentimento che nutrivo per qualsiasi Ryan, ma dice tutto sul sentimento che coltivavo per Camila.
Ricordo quando sull'orlo dei diciannove anni si presentò sotto casa con una sigaretta pencolante fra le labbra. Rimasi immobile sulla soglia per qualche attimo. Mi abituai a quell'immagine nuova e imperfetta. Poi, dato che avevo compreso che non avrei potuto dissuaderla, afferrai la sigaretta e la spezzai a metà, poi gliela appoggiai nuovamente sulle labbra -che non aveva mai serrato- e l'accesi. Da quel momento ha sempre fumato sigarette spezzate a metà. Si poggiava fra le labbra il mio gesto ogni volta che appiccava il tabacco e lo aspirava. Quello non era molto più di un bacio?
Non lo dicemmo a nessuno. Sapevamo che nessuno avrebbe capito e nessuno avrebbe accettato, così ci comportammo come sempre avevamo fatto e fummo noi stesse solo quando nessuno si ricordava che per l'ennesimo sabato avevamo degli impegni per cui presentarsi alla festa di Cynthia o Rebecka o Alyssa fosse impossibile.
È passato troppo tempo per ricordare se avessi paura, ma so che quando qualcosa non va come deve andare, frugo nella spensieratezza di quei giorni e mi adagio sul letto dei ricordi. E Piango. Mi dico che sia colpa del progetto fallito, del frigorifero rotto, della lite con mio marito, ma la verità è che non ho ancora finito di piangere per lei. E qualsiasi espediente della mia attuale vita serve a giustificare quella che non ho vissuto. Quella che mi hanno tolto.
Se sia stata mia madre, quando mi ha trascinato via dalla stanza di Camila per rinchiudermi nella mia. Se sia stato mio padre, quando ha impedito alla mamma di Camila di varcare la soglia di casa nostra per stendere sul tavolo un trattato di pace. Forse potrei incolpare anche i miei fratelli, che non si sono macchiati nel loro silenzio, ma non si sono nemmeno redenti dai colpevoli. Ma la verità è che il principio dell'accusa risale a quando mio padre si è seduto sulle gambe di mio nonno sfogliando la Bibbia. È passato così tanto tempo che nemmeno ricorda cosa vi fosse scritto, ma sa a memoria i pregiudizi di chi si nasconde dietro un crocifisso per crocifiggere gli altri.
Non ho mai creduto che sarebbe stato facile, ma non mi ero preparata nessuno addio. Non ero pronta. Credevo che per quello ci sarebbe stato tempo. Non ci fu concesso nemmeno quello. Mia madre fece la valigia per me. Mio padre caricò la macchina. Non opposi resistenza perché l'avevo consumata piangendo. Contavo i gradini mentre scendevo verso l'inferno e sorridevo pensando che i dannati trascorrono i loro giorni fra le fiamme, ma in paradiso arriva solo chi quelle fiamme le ha appiccate. Paradossale. Ingiusto. Ma vero.
Non ero io la colpevole, ma ero io a scontare la pena. Anzi no. Non ero io. Era Camila. Io me ne andai lontano, in un luogo dove si pregava e si chiedeva perdono per aver creduto che amare fosse una scelta libera. Me ne andai in un posto dove quando mi affacciavo alla finestra vedevo alberi e case che non erano le sue. Fu lei costretta ad addormentarsi tutte le notti guardando verso la strada dove avevamo giocato per anni, osservando le famiglia che mi aveva cresciuto e dimenticato raccogliere la posta come niente fosse. Fu lei A controllare la mia stanza sorprendendosi ancora di trovarla vuota. Non oso immaginare come abbia fatto a non impazzire. So solo che ad un certo punto anche lei se ne è andata. Quando sono tornata lei non c'era già più. Le avevo detto addio tanto tempo addietro. Proprio come ci eravamo avvicinate ci eravamo anche allontanate: senza dirci niente, sapendo già tutto.
Poi, dopo troppo tempo, un tempo che parve ripetersi per quanto a lungo tornò a martoriare i timpani con i suoi capodanni, a ustionare la pelle con il solito sole, a screpolare le nocche con i medesimi venti, ad annoiare con le stesse identiche facce, complimenti, compleanni, nozze, anniversari, addii, squillò il telefono. Avevo dimenticato la sua voce, ma non la voglia di risentirla. Mi chiese di vederci. Quando? Subito. Dov'era? Al bar. Il solito. Volevo andare? Volevo solo quello.
Non sapevo come mi avesse rintracciato, da quanto tempo avesse il mio numero e da quanto altro avesse pensato di chiamarmi senza mai farlo davvero, per quanto tempo si era domandata chi avrebbe risposto. Io naturalmente. Sempre io. Solo io. Si sedette davanti a me. Mi sorrise come se non avesse mai passato un giorno senza farlo e mi chiese se fumassi ancora. Le dissi di sì. Mi chiese di aprire il pacchetto di Camel blu che tenevo in tasca. Sapevo già cosa voleva sapere. Sorrisi proprio perché sapevo. Sollevai il coperchio di carta e un'onda gentile di tabacco mi carezzò le narici. Afferrai una di esse e la misi fra le labbra. Era spezzata. Tutte lo erano. Erano un po' come noi: spezzate ma ancora pronta a bruciare. Sorrise. Non avevo mai smesso di baciarla.
Fu la prima giornata della mia vita che dopo anni trascorsi senza fingere.
Era venerdì. Questo lo ricordo bene. Perché è stato ieri.
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One shot Camren
FanfictionOne shot Camren Comprenderanno anche alcuni capitoli "interattivi" e capitoli riguardanti storie presenti sul mio profilo (come fight back, she loves her etc...)