Camila from 1980

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La ragazza della foto non é me, ma non é una finzione. Annie Ernaux descrive così il suo passato fatto presente, saluta la dolce età con l'affetto di un caro rimasto al porto mentre la nave prende il largo. Mi sento folgorata da quelle parole. Inchiodata. Per la prima volta qualcuno capisce, sa, mi riconosce più di quanto addirittura mia madre farà mai. Non so se sentirmi grata o spaventata. Quando ti spiegano chi sei, che parte assumi nella tua storia? Il problema non é mai fra burattini e burattinai, non per me. Il problema é questo filo quale arto di me muoverà? E queste parole fanno vibrare ogni mia congiuntura. La mia vita riassunta in dodici suoni.

La versione di me che non mi assomiglia più, ma non pretende di essere me, risale ai primi anni del liceo. Ho odiato quel periodo prima ancora di iniziarlo. La vita non iniziava davvero col primo vagito, bensì con la prima liceo. Si prospettava un grande passo, un'impresa spropositata per la mole dei miei anni. I miei coetanei apparivano così spensierati in confronto a me da ridicolizzare le mie ansie. Mi convinsi che mentissero. Tutti. Erano sei bugiardi, solo più addestrati di me. La vita era una recita e io ancora dovevo imparare le battute, tutto qui.

Non ricordo molto altro di quei primi due anni, oltre l'urgenza di rimpicciolirmi, scomparire dalle analisi metodiche e dai giudizi taglienti. Tutte le mie giornate si concentravano in quell'unico obiettivo. Poi, al terzo anno, una nuova ragazza appesantì le mie paure. Si chiamava Camila. Mi bastò un secondo per eliminarla dalle mie possibili amicizie. Troppo carina. Tutte quelle carine non parlavano con me se non attraverso sbuffi e ghigni. Lei non fu mai come loro. Fu migliore anche di me, dei miei giudizi affrettati almeno.

Fu lei a chiedermi di studiare insieme biologia. Non ci capiva niente. Io avevo i voti più alti. Mi disse "ti pago". Le risposi "non c'è bisogno". É un debito che ho scontato per tutta la vita, dopo. Studiavamo due ore nel pomeriggio, una alla sera. Secondo me é sempre stata più brava di quanto volesse far sembrare e per poco non mi illusi di essere io il motivo di tanta finzione. "Si," mi disse una delle ultime volte che ci vedemmo, "Si, ho finito più del dovuto per starti vicina." Ironico. Io ho dovuto fingere tutta la vita proprio per starle lontana.

Camila aveva amici, ma non fidanzati. "Mi piacciono le ragazze". Risento ancora la sua voce, cristallina e limpida; un vetro in frantumi durante un incidente, un rumore che non si dimentica mai. Lei fu il mio incidente. Una curva troppo stretta, una serata più nervosa. Un errore banale che cambia la vita. Non ho altre parole per raccontare di lei. Se ne esistessero, dubito le userei comunque: certe cose bon possono appartenere neppure alla memoria.

Io non le feci domande. Non c'era bisogno. Ero io a dover interrogare me stessa. Perché quell'affermazione inequivocabile mi turbava tanto?
Perché la squadravo di sottecchi chiedendomi dove trovare tanto coraggio a quell'età? Io non ero come lei. Mi piacevano i ragazzi. Solo i ragazzi. Ma quella sottolineatura sembrava l'inizio di una serie di bugie di cui, come succede sempre, prima o poi si perde il filo, inciampando per caso nella verità.

Per me fu più che un caso, onestamente. Fu una domanda. Diretta quanto la risposta. "A te piacciono le ragazze?", mi chiese fra una cellula e l'altra, spiazzandomi per la franchezza sfrontata. "No", noj dovette nemmeno rifletterci, andavo a intuito proprio come uno studente all'interrogazione imparata a memoria. Lei annuì e si strinse nelle spalle: "peccato".

Dopo più nulla. Mesi di silenzio, mai più una parola a riguardo. A lei andava bene così e anche se non le fosse andato bene, ci conviveva serenamente. Fu proprio quella tranquillità a insospettirmi. Anche i migliori criminali appaiono calmi di fronti al diletto, addirittura innocenti. Sentivo che qualcosa dentro di me era morto e che lei magari non si poteva reputare colpevole, ma complice si, e questo era già abbastanza per confessare. "Forse un po' mi piacciono... Forse un po' mi piaci." Non ho mai più trovato l'ardire di esprimere i miei pensieri in modo del tutto diretto come quel giorno. Mai più nella vita. Solo davanti ai suoi occhi placidi mi svestii completamente, mi mostrai per ciò che ero. Prendimi così o niente.

Così per lei fu tutto. Mi portò a casa sua dopo quel pomeriggio. Mi mostrò la sua camera, non pretese niente, successe e basta. Le sue labbra avevano una morbidezza diversa da tutte le altre che avevo baciato. Un sapore di ciliegie sbucciate, di uva senza seme, un nocciolo succhiato fino alla polpa. La sua mano sgusciava su di me con l'agilità di un pescatore sulla rete, mi dimenavo solo per morire fra le sue mani. Era la prima volta che permettevo a qualcuno di scoprire il mio corpo oltre i limiti del proibito. Lasciai facesse di me ciò che desiderava. Mi abbandonai ai sensi talmente profondamente da avere immagini confuse di quel ricordo, piuttosto scie di pensiero che appaiono solo per scomparire. Nessuno mi ha più toccato così. Non sono stata così più per nessuno. Eppure...

La nostra storia, per così definirla, proseguì in clandestinità per mesi, forse addirittura anni. Non ricordo il tempo, nemmeno le date; conservo quel periodo nella memoria come un malloppo di coriandoli: non saprei distinguerne uno dall'altro, ma se li stringo in mano assaggio la felicità. Lei era sfacciata, violentemente libera, crudelmente onesta. Non faceva un segreto della sua vita, perciò non oso immaginare quanto scorretto fu da parte mia sottoporla ad una scelta implicita: o una vita insieme o la tua, ma lontana. La sua non fu neppure una scelta. Avevamo bisogno l'una dell'altra più di quanto ogni frase potrà mai spiegare senza porosità. Però, amarmi la consumava. Non poteva essere se stessa, doveva guardarmi rifiutare blandamente le attenzioni maschili e si rannicchiava nel letto, girata di spalle, domandandosi tutte le sere cosa mancasse a lei che loro possedevano.

L'approvazione dei miei genitori. Ecco cosa mancava. Loro non mi avrebbero accettato e solo chi ha perso la stima di un padre sa comprendere cosa significhi vivere dubitando ogni successo; solo chi ha perso l'affetto di una madre sa come ci si senta a voler piangere ad ogni carezza altrui. Non potevo vivere così. Ma Camila non poteva vivere mentendo.

L'ultimo anno di liceo mi chiese di seguirla al college, lontana da tutti. Di unire i sogni in una strada comune. Se avessi percorso quel sentiero, forse ora non starei a chiedermi cosa manca alla mia vita, ma non l'ho fatto. Mi mancò il coraggio, mi mancò la lucidità. Scelsi la via facile e non ho mai smesso di pentirmene. Mai smesso di invocare un perdono che nemmeno Dio potrebbe darmi, perché per lui ho sconfitto l'impulso del male, ho vinto l'istinto della perdizione, ma per me ho solo perso l'amore vero.

Non saprò più cosa vuol dire sentirsi capiti, sentirsi protetti. Non conoscerò mai la mancanza di un corpo contro il mio, il bisogno fisico di sfiorarsi per essere vivi. Non mi sarà concesso trovare la parte di me in un altro. Al massimo lì é dove l'ho persa. Una menomazione invisibile Ad occhio nudo, ma il taglio é netto. Non mi é dato essere me stessa più di quanto fui allora. Di me restano strani sogni e vaghi ricordi che porto nel letto con un altro uomo.

Ora, tutto sembrerebbe perduto, ma ogni tesoro seppellito può essere ritrovato. Non avevo una mappa, ma i miei passi sono giunti sulla X. Camila é seduta di fronte a me in un bar di New York di cui conosco solo la fama. É cambiata ma é lei. La riconoscerei tra mille. Lei non mi vede. Posso svoltare l'angolo e andare via. Nessuno lo saprà mai. Ma io si. Non ci si può perdonare lo stesso sbaglio la seconda volta, soprattutto quando lo sbaglio é lungo dieci anni.

Il campanello trilla e lei si volta.

One shot CamrenDove le storie prendono vita. Scoprilo ora