Capitolo 110 - Andare via, a testa alta, è dignità -

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20 agosto

La mattinata era iniziata da poche ore, ma la calda luce del sole arrivò piuttosto in ritardo sul volto trasandato del giovane generale corso, sdraiato sul letto duro e spoglio della cella.
Dormiva profondamente, dopo aver passato un'intera nottata a leggere e a documentarsi su quanto stava avvenendo in Francia e in Europa, anche se il maggior interesse riguardava la sua persona.

Erano, infatti, passati 10 giorni dal suo arresto e, a parte le frequenti visite dei suoi aiutanti di campo, il secondino che lo trattava in maniera dignitosa e qualche perlustrazione dell'ufficiale, la situazione era rimasta invariata. I giorni si erano susseguiti rapidamente, tutti uguali e per Napoleone quella situazione d'immobilismo, oltre che di apprensione, diventava sempre più insostenibile. Non sapeva nemmeno lui per quanto tempo avrebbe resistito ancora, si augurava solo di non impazzire, in quello stato.

Infastidito dal raggio di sole che gli era caduto sulle palpebre e sull'ampia fronte, coperta in parte dai ciuffi di capelli spettinati, sporchi, emise un suono gutturale, aggrottando le sopracciglia sottili, si mise di fianco sul letto, di fronte al muro ammuffito, rannicchiandosi leggermente su se stesso. Era sempre stato il suo meccanismo di difesa, che aveva adoperato anche quando era in Accademia e si era trovato nella medesima situazione. Fu un'azione quasi istintiva. Quelle poche ore di sonno che si concedeva divennero quasi sacre, in quella settimana, non aveva molto da fare, escludendo la lettura.

Il suo sonno, tuttavia, non era sereno, tranquillo, tutti gli avvenimenti che si erano susseguiti negli ultimi mesi si erano riversavati e si erano alternati nei suoi sogni, che spesso mutavano in incubi. Più di una volta si era svegliato di soprassalto, sudato. Ai disordini della sua isola si era aggiunto il lungo tempo vissuto a Tolone, tra momenti lieti e vittoriosi e quelli terribili e inquieti. Senza contare l'incertezza del futuro che nuovamente era piombata sulla sua esistenza: non poche volte, in effetti, aveva sognato la propria morte, sotto la lama della ghigliottina, accanto a quella dei suoi cari.

Agitato, si girava e si rigirava, mentre la luce continuava a colpirgli la testa, senza dargli pace - Pure il sole si mette di mezzo, adesso - borbottò stufo, tentò di coprirsi con il braccio e di sprofondare nuovamente tra le braccia di Morfeo, per non dover pensare alla sua misera condizione. Agognava quel tipo di sonno senza sogni che avrebbe, senza dubbio, giovato alla sua anima tormentata, più che al suo corpo. Ma poi, alla fine, si era reso conto che non sarebbe riuscito più a riaddormentarsi o anche semplicemente a riposarsi, rifocillarsi. Una volta sveglio, gli riusciva praticamente impossibile rilassarsi, abbandonarsi.

Spostò leggermente il braccio destro, provò ad aprire gli occhi, li richiuse di nuovo per il fastidio, si sedette. Attese qualche secondo per abituarsi alla luce. Alzò leggermente la testa verso la finestra, quel piccolo pezzo d'azzurro, che bucava la monotonia delle pareti lorde, lo fece sospirare profondamente - Riuscirò a vedere nuovamente questo bellissimo cielo d'estate? - si chiese. Oramai non sapeva nemmeno lui se continuare a sperare e pregare o arrendersi allo squallore che sembrava profilarsi. Forse il suo destino non era la grandezza - Probabilmente i miei progetti resteranno solamente sogni irrealizzabili - la testa, abbassata, penzolava leggermente, teneva appoggiati i gomiti sulle magre gambe - Quei grandi uomini che avrei voluto superare saranno sempre ineguagliati, imbattibili - nella sua testa iniziarono a formarsi le figure di tutti questi grandi della storia il cui nome era diventato leggenda: da Alessandro Magno a Cesare, a Carlo Magno, a Eugenio di Savoia, a Federico di Prussia.

Scosso da un fremito, scattò in piedi, osservò, taciturno, la forma che si era creata sul materasso, se così poteva essere denominato quell'insieme di paglia e piume che aveva sott'occhio. Dopo pochi secondi nulla era rimasto, il letto era ritornato ad essere come lo aveva lasciato la giornata precedente, prima di coricarsi. La sua presenza nella storia sarebbe stata simile? In cuor suo non lo voleva assolutamente.

D'un tratto risuonò il rumore di passi che proveniva dall'esterno, che ormai riconosceva, spostò rapidamente gli occhi in quella direzione per poi riportarli di nuovo davanti a sé, verso il tavolo, su cui vi era ancora la cena della sera precedente, si era sforzato di mettere sotto i denti qualcosa, ma senza successo, gli si era chiuso lo stomaco - Vi ho portato la colazione - affermò il secondino, avvicinatosi alle sbarre, nel mentre apriva la porta. Tra le mani teneva stretta una bottiglia di latte, sempre fresco, appena munto, diceva allegro, non esitava mai a condividerlo con lui e il resto dei carcerati - Puntuale come un orologio svizzero, generale - ridacchiò l'uomo.

Quando entrò si accorse di ciò che il giovane generale aveva lasciato e lo fissò, Napoleone si voltò e subito replicò - Non avevo molta fame...ieri sera... - lo guardò, sorridendo un po' tirato. Si massaggiò il collo, tentando di allontanare l'imbarazzo.

- È la stessa scusa che avete usato ieri a pranzo, per giustificare la colazione saltata - lo rimproverò bonariamente l'uomo. Non voleva essere troppo duro con il ragazzo, aveva percepito la sofferenza che provava, lo affliggeva, oltre all'umiliazione che una simile condizione comportava, specie se innocente.

- Vi chiedo perdono - riferì Napoleone sinceramente dispiaciuto - Avrei dovuto comunicarvi che non avevo voglia di mangiare negli ultimi giorni, in modo da poter riservare le porzioni per gli altri detenuti, sono stato egoista - nel riferire ciò teneva lo sguardo basso - Sono sovrappensiero d'indole, quindi rispondo automaticamente, senza riflettere molto sulle parole che pronuncio - spiegò onestamente, seppur non avesse particolare desiderio di parlare, discutere con qualcuno.

Per rimediare alla mancanza, addocchiata la cena sul tavolo, gliela indicò - Dovrebbe essere ancora mangereccia, se lo fosse, distribuitela tranquillamente, io non riuscirei a mandarla giù, al pari del latte che mi avete portato adesso - il secondino non poté rifiutare ciò che il generale stava offrendo con tanta spontaneità. Tuttavia temeva che stesse agendo in tale modo, in quanto mosso da uno scopo ben preciso, fin troppo lucido, adoperando uno tra i metodi più distruttivi che la mente umana potesse concepire, ossia per inedia. Lasciandosi, di conseguenza, consumare dalla fame, morendo in silenzio e discretamente, al fine di dimostrare la sua innocenza e totale estraneità ai fatti dei quali veniva accusato. Conosceva abbastanza la mentalità militare, per cui era altamente probabile che quel giovane militare, pieno d'onore e di senso della disciplina, ci avesse pensato più volte.

- Siete giovane, generale - gli disse la guardia carceraria, aveva relegato il cibo alle altre guardie che erano nei paraggi. Cercava di incrociare i suoi occhi, il ragazzo, al contrario, evitava il contatto, non sapeva per quale motivo. Era stato sempre disponibile, aperto al dialogo ogniqualvolta lo andava a trovare, nonostante la sua proverbiale introversione - Non fate pazzie, avete bisogno di stare in forze o non riuscirete ad andare avanti nella vita... - le porzioni che consumava giornalmente erano già minime. Non doveva essere proprio il genere di persona che amava i piaceri della tavola.

Mai prima di allora gli era capitato di incontrare un tipo simile; di solito, tra prigionieri, ci si picchiava violentemente per ottenere l'ultimo, prezioso boccone. Invece a quel ragazzo sembrava importargli altro, i libri ad esempio, che divorava, leggeva e rileggeva più volte, appassionato, coinvolto, persino di notte. Studiava le carte geografiche con la medesima intensità; la sua concentrazione gli faceva dimenticare il resto, anche i bisogni fisici e fisiologici. Era come se in quegli strumenti ci fosse qualche segreto celato, che stava cercando di scoprire a tutti i costi, sacrificando le necessità del corpo. Un fisico già indebolito dalla sua innata gracilità e magrezza.

- Voi la chiamate vita questa? - chiese retoricamente il ragazzo, ridestandolo, le braccia allacciate dietro la schiena, contava a grandi passi la cella - Io la chiamerei più lotta per sopravvivere alla vita - sospirò profondamente. Si augurò che gli aiutanti non giungessero presto come al loro solito, perché non sapeva nemmeno lui cosa avrebbe fatto per rincuorarli e tranquillizzarli. Avrebbero scorto immediatamente la terribile inquietudine che aveva oscurato il viso già smunto - Dopo tutto quello che ho fatto per la Rivoluzione, questo è il ringraziamento! - trattenne l'ira che lo stava travolgendo, doveva continuare a restare calmo, se avesse perso la testa avrebbe soltanto peggiorato il tutto "Avrei dovuto lasciarli invadere dagli inglesi, a Tolone, ingrati che non sono altro, Saliceti in primis!"

Il rumore di passi cadenzati interruppe bruscamente la conversazione, Napoleone spalancò gli occhi "Forse sono venuti a prendermi per portarmi a Parigi" pensò leggermente spaventato, non lo aveva previsto. Una goccia di sudore scese lungo la guancia. Il secondino si stupì dell'orario - Sono in anticipo! - esclamò "Dev'essere avvenuto qualcosa, mi auguro che non sia ciò che penso ..." Non osò immaginarlo.

- Vogliono accertarsi che io sia ancora vivo - emise sarcastico Napoleone, a braccia conserte, rivolgendo le spalle all'entrata, ostententava una sicurezza che non possedeva - Non possono di certo trasportare un cadavere a Parigi - continuò tagliente - Altrimenti lo diventano pure loro, i termidioriani non sono poi così diversi dai terroristi giacobini - si voltò leggermente all'indietro, non appena li vide fermarsi e chiedere il permesso per entrare al secondino "A quanto pare sono qui proprio per prendermi".

- Non è un po' presto per condurlo a Parigi? - domandò la guardia tremando - Inoltre non ha ancora mangiato, potrebbe sentirsi male durante il viaggio - cercava di aggrapparsi a qualsiasi scusa per concedergli ancora qualche ora, prima dell'inevitabile.

L'ufficiale dall'ampia fascia attorno al corpo lo zittì con un gesto secco della mano, avendo compreso il meccanismo del secondino, intenzionato nel far guadagnare tempo a favore del giovane, ma non ce n'era bisogno. Si rivolse al generale il quale, stoico come sempre, lo stava fissando con mal celata ostilità, con quello sguardo indecifrabile che aveva avuto lo spiacere di incrociare - Generale Buonaparte - iniziò, storpiando il cognome di Napoleone, quest'ultimo non ci faceva neppure più caso, ci aveva fatto l'abitudine - Per mancanza di prove, siete assoluto da qualsiasi accusa, la revoca dell'arresto ci è giunta pochi minuti fa - riferì freddamente, tutto d'un fiato.

Senza dargli il tempo di reagire alla sentenza, l'ufficiale gli restituì la sciabola sequestrata. Napoleone era rimasto senza parole, similmente al secondino, ci aveva sperato così tanto che gli fu difficile credere a quello che aveva appena udito. I soldati che, dieci giorni prima lo avevano sbattuto in quella misera cella, si avvicinarono a lui per scortarlo fino alla vettura che lo avrebbe riportato all'accampamento di Nizza, presso l'Armée d'Italie.

Recuperati i suoi averi e superate le sbarre che erano stati il suo ostacolo alla gloria, Napoleone si girò, scrutò il secondino e lo ringraziò - Un giorno vi ripagherò, cittadino, vi sono debitore...

- Ho compiuto il mio dovere, generale - ammise l'altro modesto, e per lui agevolare la detenzione carceraria era un dovere, lo considerava il suo reale lavoro. Non gli era mai piaciuto trattare gli arrestati e imprigionati al pari, se non peggio, delle bestie. Era rimasto sconvolto da quanto si era verificato in quegli anni, da quel 1789. Quell'evento stava stravolgendo la storia.

Napoleone sorrise lievemente, chinò la testa - Addio - effuse infine, alzando la mano destra, una volta uscito dalla cella, a mo' di saluto. Si mise il cappello sulla testa.

- Addio generale - ricambiò velocemente, prima di vederlo sparire dalla sua vista. Chissà se un giorno avrebbe sentito parlare ancora di lui, era un uomo così particolare, dubitava che non saltasse all'occhio, che emergesse.

- Generale! Generale! - udì un coro di voci che lo stava chiamando animatamente, gli fu sufficiente il tono della voce di ognuno per riconoscerli. Sorrise divertito, erano i suoi tre aiutanti di campo. "Non potevano che essere loro, i soliti euforici" sollevò il braccio sinistro e lo agitò per far intendere loro che aveva compreso - Fateli venire con me, sono i miei uomini più fedeli - propose cordialmente Napoleone all'ufficiale, la sua espressione era raggiante, gioviale. Gli pareva un ragazzo di appena vent'anni, la barba incolta che ricopriva leggermente il mento, la mascella e la mandibola squadrata non intaccava questa impressione - Tanto adesso non avete più nulla da temere, dico bene?

- Dite bene, generale - rispose l'altro, per nulla convinto dalla sua aria rilassata. Quel giovane ufficiale d'artiglieria di venticinque anni, dal cognome impronunciabile non lo aveva mai convinto del tutto, c'era qualcosa che gli provocava una strana sensazione di disagio, che gli sussurrava di restare all'erta. Specialmente quando si mostrava sereno. Dietro quei lineamenti delicati si nascondeva un individuo estremamente resistente e caparbio, da non sottovalutare. Tuttavia, non aveva alcun potere su di lui, con la sentenza emessa da Saliceti "Peggio per loro..."

Concesse a Marmont, a Junot e a Muiron di occupare il posto assieme al loro generale. Non se lo fecero ripetere più di una volta e si accomodarono accanto a Napoleone, il quale, una volta seduto su quei morbidi cuscini, emise un respiro profondo - Finalmente, sembra che sia passata un'eternità dall'ultima volta in cui ho toccato qualcosa di morbido e pulito - ammise con grande sollievo e piacere. Volle godersi quel momento di assoluta pace, chiuse gli occhi e cominciò a tastare la pelle liscia e fresca dei sedili, distendendo i muscoli e le ossa. Nessuno si azzardò a disturbarlo, i tre restarono a rimirarlo, anch'essi sollevati e divertiti, ritardando il momento delle spiegazioni.

Barcellonnette

Saliceti si era reso conto che non poté fare altrimenti con Buonaparte. "Dopo l'esame delle sue carte e delle sue informazioni che abbiamo raccolto, abbiamo riconosciuto che niente di positivo poteva far durare a lungo la sua detenzione" tali parole, che aveva riportato nel rapporto per scagionarlo, rimbombavano nella mente. Quei giorni erano stati intensi e difficili, per il rappresentante corso, era stato praticamente sommerso da richieste di liberazione del suo conterraneo, da parte dell'esercito ubicato a Nizza.

Come se non bastasse, il nemico al confine si stava rafforzando e non era opportuno tenere un generale dell'artiglieria di grande competenza, e prestigio soprattutto, incarcerato. In tutte le lettere ricevute, Saliceti e i colleghi avevano notato che i soldati invocavano la presenza di Buonaparte poiché era l'unico che sapeva cosa e come fare. "È riuscito a conquistare i cuori dei militari, cosa per nulla facile" si disse il corso tenendo poggiata la testa tra le mani e muovendo le gambe sotto il tavolo "Com'era riuscito a fare a Tolone...forse mi sono lasciato prendere dal panico" si strinse la testa con rabbia, era stato uno stupido. Per fortuna era riuscito a salvarlo in tempo "Come ho potuto? Io che sono sempre stato freddo, razionale, mi sono fatto travolgere dagli eventi e...ho condannato un amico..." era stato tormentato dai sensi di colpa.

Giuseppe e Luciano, non appena avevano saputo dell'accaduto, gli avevano chiesto dei chiarimenti sul decreto messo nei confronti del fratello e lo avevano invitato a rivedere le sue posizioni, in nome del legame che li aveva uniti da quando erano ancora in Corsica. Si erano schierati dalla sua parte, sull'isola, andando sempre a favore della Francia. "Dovrò farmi perdonare dal generale Buonaparte" rifletté "Farò di tutto per riottenere la sua fiducia e sorvolare su questa brutta faccenda".










L'Uomo Fatale - 1: Identità - [In revisione]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora