186. Venet(/z)ia

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Galatea accarezza i capelli del bebè addormentato accanto a lei nella carrozza.
Hanno passato alcuni decenni insieme ed è cresciuto di così poco, anche se già cammina.
Non che si aspettasse qualcosa di diverso da uno degli eredi di Romulus.

Veneziano Vargas.
Romulus ha deciso, poco prima di sparire definitivamente dalla faccia della terra, che il cognome dei suoi pargoli sarebbe stato quello, diverso dal suo, nella speranza di nascondere in parte il legame con loro.

Ma, se Sicilia è un minimo furba come la ricorda, anche lei riconoscerà che è una scelta stupida, ma che nessuna delle due ha potuto negare ad un uomo morente.
Entrambi, anche se per motivi diversi, assomigliano al grandioso (e ormai morto e solo un nome nella storia) Impero Romano.

Romano ha i capelli della sua stessa sfumatura castana, Veneziano ha ereditato gli occhi caldi e dolci come il miele di tiglio più scuro. Entrambi posseggono un ricciolo, nella stessa posizione in cui si trovava uno dei due di Romulus. Hanno il suo sorriso splendente, ammaliante.
E hanno un odore estremamente simile, un'aura uguale anche se più debole, e sono destinati a soffrire come tutti loro.

Spera solo che Romulus abbia fatto la scelta saggia, scegliendo di consegnarlo nelle mani di Venetia.
Lo ricorda poco, l'avrà visto tre volte al massimo, ma si ricorda che era un giovinastro irrequieto, dagli occhi vispi e intelligenti, ma estremamente chiuso in se stesso.

Chissà se è cambiato, chissà se è tornato ancora più giovane, come è successo a lei.
Già faceva fatica a farsi valere come donna, ora che è una bambina deve usare ancora più potere ed è usurante.
Soprattutto per non fare incuriosire nessuno riguardo Veneziano.

Sospira lentamente e cerca di scacciare lontano i brutti pensieri osservando il faccino sereno del bimbo che trasporta. E che non ha nessuna idea di quanto sia importante e di quanto è ambito.

Prega dei che l'hanno delusa (e anche un Dio onnipotente che è un controsenso unico, appena si guarda oltre la coltre di fumo benevolo) che quel bambino possa vivere una vita serena sotto l'ala di Venetia.
Ad un certo punto la carrozza si ferma.

Galatea aggrotta le sopracciglia. Il cocchiere apre la cabina e decreta: <Siamo quasi arrivati a Venezia, ma non possiamo proseguire in carrozza.>

<Come mai?> domanda imperiosa lei, anche se la sua vocina da bimba è tutto fuorché imponente.
<Guardi lei stessa.> commenta il cocchiere, invitandola a scendere.
Galatea, dubbiosa, ma risoluta, scende e guarda.

E non crede ai suoi occhi.
Che stregoneria è quella?
Come fa una città ad esistere sull'acqua?
Sembra sospesa e, essendo ancora mattina abbastanza presto, l'acqua è tinta dei colori rosati e arancioni del cielo: la città sembra quasi fluttuare in aria, con il sole che l'accarezza e accetta che tale esistenza contro natura esista.

<Oh.> riesce solo a dire Galatea, tornando verso la carrozza. Riflette qualche secondo, poi decreta: <Ci sarà sicuramente una locanda nei dintorni. Andiamo lì, dove mi aspetterai con la carrozza che proteggerai. Io e il bambino invece proseguiremo verso la città.>

<D'accordo.> acconsente l'umano, tornando al suo posto, alla guida dei cavalli.
Galatea torna nella carrozza.
Accarezza il volto della (si spera) futura e potente nazione, per poi scrollarlo delicatamente per la spalla.

Veneziano strizza gli occhi, sbadiglia e solleva la testa, mettendosi seduto.
Sbatte ripetutamente gli occhi, poi mette a fuoco. Sfrega gli occhietti e domanda, con la sua voce acuta e sottile: <Sì?>

<Tra poco non potremo più proseguire a piedi, quindi ti ho svegliato così sarai pronto a camminare.> spiega Galatea.
<Se mi stanco mi porti tu?> domanda candido Veneziano.

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