38. Antichi tempi e ricordi

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Mario entra in camera e si assicura di averla chiusa per davvero e non solo accostata. É una cosa personale, non vuole farsi beccare!
É una cosa privata e tale deve rimanere.

Apre l'armadio e rovista nei ripiani in basso, dannandosi in un certo senso per aver nascosto tutto così bene. Dopo qualche pila spostata, sorride trionfante e prende il fagotto cercato.

<Eccoti qua!> dice fra sé e sé il laziale, chiudendo con la sua solita non-gentilezza l'armadio e buttando il fagotto sul letto.
Controlla per sicurezza che la porta non sia socchiusa e si china, assicurandosi che nessuno lo stia spiando dalla serratura.

Poi ritorna al letto, dove c'è il bozzolo di tessuto, e lo apre. Si da però una manata in fronte e prima di spoglia, rimanendo in boxer, buttando i vestiti malamente sulle lenzuola, non sul fagotto srotolato.

Sorride raggiante al suo piccolo "kit" segreto a tutti… che gli permette di trasformarsi in un perfetto cittadino dell'antica Roma!

Prende per prima cosa il chitone, che si infila con facilità, facendo una veloce giravolta e constatando per la milionesima volta che, sì, diamine, quella veste é troppo corta e troppo sbarazzina a se stante.

Perciò prende la corda spessa in mezzo ai vari pezzi di tessuto e se la lega in vita con un piccolo nodo su un fianco. Fa di nuovo una piroetta a piedi nudi e questa volta il chitone resta abbastanza fermo.

Ripesca il clamide che cerca di stendere, nel (vano) tentativo di togliere le varie pieghe che il vestito ovviamente ha preso nel tempo, a stare piegato in modo errato.

Ma Mario risolve più o meno la cosa e ridà al suo clamide un minimo più di somiglianza a quello tradizionale dell'Antica Roma.

Infila il clamide e fa una piccola sfilata oer la stanza, avanti e indietro, ridacchiando mentre fa passi ampi e lenti. Tenta di darsi un contegno, gesticolando con movimenti posati e poco ampi, impersonando un antico signore che parla al cospetto del resto dei suoi colleghi senatori pari suoi.

L'unica cosa incorretta, che però adora e a cui non rinuncia, é una piccola spilla sulla spalla per assicurare due parti del clamide. É una spilla non più grande di una noce per diametro, di argento, della forma del muso di un lupo.

Il muso è rigido, fermo, e trasmette sicurezza mista ad una certa regalità. Gli occhi del lupo, entrambi ancora integri e lì attaccati come in principio, sono due piccole gemme di granato almandino, rendendo lo sguardo del lupo pauroso.

Nella luce le due gemme rosse brillano di una luce intensa, mentre nella penombra il loro tono pare più scuro, simile al sangue, del quale il lupo pare diventare assetato, con il suo volto predatorio.

É una spilla creata da barbari, ma utilizzando materiali di parti dell'Impero (per esempio il granato almandino é stata una rarità scoperta in delle pietre nell'attuale Austria).

Ma manca ancora l'ultimo indumento per ricreare la toga come i più abbienti portavano al tempo di massimo spendore di uno dei più conosciuti e apprezzati Imperi di tutti i tempi.

Quindi prende l'ultimo indumento avvolto nel telo più grande e indossa quell'ultimo mantello ripiegato, solitamente utilizzato nei periodi invernali per tenersi un po' più al caldo.

Saggiamente ha scelto una giornata fresca di metà settembre per indossarlo, tenendo aperte le finestre. Tanto da sul giardino sul retro, quindi nessuno lo vedrà, specialmente se starà davanti lo specchio.

Ed é quello che fa.

Si sposta davanti allo specchio a figura intera, muovendo piano le braccia, alternate, divertendosi come un bambino vedendo i vestiti frusciare piano con i suoi movimenti.

Ad un certo punto sorride orgoglioso, poi cerca di fare la faccia più seria del suo repertorio e, petto in fuori e voce più bassa del normale, inizia a parlare.

Ma non in italiano. No no.
E neppure in romanaccio, quello non gli attraversa neppure per sbaglio la testa.

Si mette a parlare in latino, la pronuncia e la cadenza perfette, come se non avesse mai smesso di parlarlo. É una peculiarità solo sua (e di Francesca, ma non lo sa): parlare latino come se fosse una lingua come le altre.

Ma proprio quando Mario é nel bel mezzo di un discorso in cui stava sfoggiando le sue doti di retorica e dialettica (limitate, ma le possedeva), succede l'imprevisto.

<Ohi, bucaiolo, hai per caso-?> domanda Francesca entrando senza bussare, fermandosi sul posto appena vede il fratello.

Anche Mario si blocca, sorpreso di essere stato beccato. É la sua cosa speciale e privata, non doveva essere scoperto!

Ma Francesca non é lì con la mente.

Davanti non vede il chiassoso fratellino Lazio…
Ha di fronte il chiassoso capo Impero Romano.

E davanti gli occhi le passano solo immagini o frammenti di pochi istanti di un passato lontano, dove la sua vita era piena della figura di quell'uomo alto, muscoloso, allegro (forse fin troppo a volte) e, per tanto tempo, potente e temuto.

Parlava in latino, insultando senza freni, da soli o in compagnia di qualche altra provincia e quell'uomo pareva piegarsi come nulla davanti la ira femminile.

Ricorda perfettamente come quella voce calda e piena diceva il suo nome di allora.

Etruria.

Le ‘r’ ben calcate, la ‘e’ chiusa e la ‘u’ breve, un soffio fra le consonanti forti.
Le estati passate nelle ville estive, in stanze con affreschi e statue di divinità (e anche di Romulus, quel megalomane), a chiacchierare pacificamente.

Non da regione a nazione.
Non da sottomessa a capo.
Non da donna-serva a uomo-padrone.
Ma da pari a pari.

In quei periodi le loro barriere crollavano e si concedevano uno scorcio di pace assoluta, diventato sempre più rado nei decenni, perché il lavoro importante chiamava in città e il suo Impero collassava su se stesso, dividendosi.

Gli occhi di Francesca si riempirono di lacrime di dolce-amara nostalgia, persa nei ricordi e in quei momenti perduti.
La toscana muove le labbra, mimando "Romulus", ma la voce non esce.

<Francé…?> chiede Mario, a mezza voce, confuso.
Questo basta alla ragazza per risvegliarsi dalla trance e spalancare gli occhi.

<Non volevo disturbare!> quasi urla la più alta, voltandosi e chiudendo con fragore la porta dietro di sé.

Entrambi sospirano, il fiato tremolante, confusi.
I cuori di entrambi battono all'impazzata, anche se per motivi diversi.

E Francesca non può non sentirsi avvolgere da una malinconia che non sapeva neppure di avere.
Scuote piano la testa. Non c'è più da oltre 1500 anni.

Basta vederlo in quel bucaiolo!
Non potrà mai superare la cosa se continua così.

La toscana scuote ancora la testa e si allontana, la domanda da fare dimenticata.
Invece il laziale non si muove, pietrificato, da dove é nella stanza.

Da quel momento, nessuno dei due ha mai tirato la questione fuori.

N/A: eeeeeeeeeee niente.
Solo Francesca che dimostra di avere un cuore non totalmente di pietra e Mario attaccato ad un passato non propriamente suo.

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