Capitolo 6. Time.

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Londra
L'aria ormai era diventata pungente nella capitale britannica; da lì a poco le temperature sarebbero precipitate e l'inverno avrebbe fatto il suo ingresso e con esso la stagione più importante per il lavoro di Brenda. Non aveva ancora ricevuto alcun feedback per la scrittura che aveva inviato a Raynolds ma non si era lasciata prendere dallo sconforto e si era immersa totalmente nelle prove della pièce per la quale aveva avuto il ruolo di protagonista senza fatica alcuna. A breve ci sarebbe stata l'ultima serata. Un po' di riposo e poi chi lo sa. Ma quel giorno il teatro era chiuso e l'aveva trascorso tra le bancarelle di Carnaby Street alla ricerca di qualche vinile che arricchisse la collezione che aveva messo in piedi proprio con lui. Già, Dylan McKay. Perché mai doveva essere così impulsiva, anche quella volta, ed aveva cancellato la possibilità di rivederlo, con un semplice gesto del dito? Una domanda sulla quale si arrovellava da un paio di giorni; una domanda retorica, che come tale non avrebbe mai trovato risposta; non ne aveva bisogno. Assorta nei suoi pensieri, scorreva un disco dietro l'altro, con una dinamica "indice-medio" che ne tradiva l'abitudine ormai pluriennale nel curiosare tra quei cimeli di musica moderna. E fu così che incappò in "Automatic for the Peolpe" album capolavoro dei Rem, uscito subito dopo "Out of the time", il disco di "Losing my religion", colonna sonora della sua rottura con McKay e del suo dolore. Un reperto che interpretò come un simbolo del dovere andare avanti; proseguire su quella strada, lasciarsi alle spalle il dolore, la rottura, per dare alla luce una nuova "opera", un nuovo idillio. Forse stava lavorando troppo con la fantasia, ma questo pensiero la mise improvvisamente di buon umore. E capì quello che voleva. E che doveva fare. Concedersi un'altra possibilità. L'ennesima. Anche se questa avrebbe significato, con ogni probabilità, nuove diatribe, nuovi garbugli, nuovo dolore. Ma era la vita; ed aveva voglia di assaporarla sino in fondo, in tutte le sue componenti. Quindi, prese il disco, pagò il ragazzo multi tatuato dietro la bancarella, e si diresse a passo svelto verso Covent Garden, dove era ubicato "Time", un caffè-libreria dal gusto nostalgico dove Dyan era solito rifugiarsi quando condividevano la vita e l'appartamento. Intanto una fitta pioggia aveva preso a bagnare impietosamente Londra, mentre un fumo denso saliva dai tombini che punteggiavano le strade. La ragazza sbucò dalla fermata metropolitana di Covent, e si diresse su Floral Street in direzione Bow St, sulla quale si affacciava la libreria. Con l'impermiabile nero già zuppo ed i capelli fradici sulle spalle, fece il suo ingresso al Time. In sottofondo risuonava Confortably Numb; cosa che non la sorprese affatto, visto che il proprietario del locale era un fan della prima ora dei Pink Floyd ed al gruppo aveva anche dedicato il nome del Caffè. Mosse un paio di passi all'interno, sgocciolando il pavimento e guardandosi attorno. Fu allora che lo vide, al solito tavolo, in un angolo defilato; nella mano destra una tazza fumante che stava accostando alle labbra, mentre con la sinistra reggeva "On the road", il libro manifesto del vecchio Jack, che praticamente conosceva a memoria. Sul tavolo, un taccuino con una penna poggiata, un piatto con qualche brownies, che a Dylan erano sempre piaciuti, il cellulare e le chiavi di una motocicletta sopra. Fu presa da un tuffo al cuore. Non lo vedeva da anni e capì immediatamente che quell'assenza le toglieva il respiro, lasciandola in un limbo in cui non sarebbe mai stata del tutto appagata. Non il lavoro, non gli amici, non la famiglia. Nessuno avrebbe potuto concederle il dono della vita piena come era in grado di fare Dylan McKay. Con questa ritrovata consapevolezza, si avvicinò al tavolo a lenti passi, lasciando una scia di gocce alle sue spalle, e quando fu abbastanza vicina, senza pensarci due volte, disse "Ciao straniero"; Dylan alzò lo sguardò, la vide e sorrise. E posò la tazza accanto il cellulare. "Ce ne hai messo di tempo".

Los Angeles
"David, dove hai messo la dannata borsa di Ethan??!!" strillava Donna dal piano di sopra. Le doglie si erano materializzate all'improvviso nel cuore della notte; ma, ascoltando i consigli della Dottoressa Potter, vecchia amica del dottor Martin, la futura mamma aveva deciso di non precipitarsi in ospedale ed attendere che il bambino facesse il suo percorso verso la luce a casa propria e non in un luogo estraneo, per quanto confortevole, quale era la clinica che i Silver avevano scelto. Alla  fine l'aveva spuntata Donna, aiutata da un paio di battute al vetriolo che Felice aveva lanciato a David sulla possibilità che il nipote seguisse il percorso del nonno paterno, partendo dal mutuarne il nome. Il ragazzo, che era stufo di litigare con la suocera, nel più classico del clichè, si era arreso ed aveva ceduto sulla scelta del nome. Steve non perdeva occasione per prenderlo in giro sull'argomento e David non sopportava affatto la cosa.
"La borsa è già in auto, da 5 giorni; io sono pronto, dai che andiamo a conoscere il nostro piccolo!" David cerò di non scaldarsi ed assecondare la moglie, in preda a dolori ed ormoni. Con fatica lei scese le scale imprecando ad ogni passo, gonfia come noi mai e preoccupata per il trucco.
"David come sto?"
"Sei un fiore, amore mio"
"Si, ma che tipo di fiore?"
"Una primula rossa"
"Vuoi insinuare che sono paonazza per il dolore?", disse Donna concitata.
"Ma no, tesoro. Sei splendida, stai benissimo; ora andiamo, che il nervosismo mi sta corrodendo lo stomaco"
"Il tuo stomaco è corroso? Il tuo, Silver! Hai il tatto di tuo padre con l'assistente alla poltrona!!!".
David cercò di non cogliere l'offesa di feliciana memoria ed andò ad aiutare la moglie sugli ultimi tre scalini. Con pazienza e "tatto", accompagnò Donna in auto, si mise al volante e cominciò il percorso verso la clinica.
Donna respirava ad intervalli regolari; erano settimane che faceva le prove al corso preparto, ma ora sembrava avere dimenticato ogni meccanismo, ogni trucco che le era stato impartito a quel corso. "Respira Donna, respira"
"Cosa credi che stia facendo, dottor Silver dei miei stivali.. Piuttosto, cerca di renderti utile, chiama mia madre"
David alzo lo sguardo al cielo.
"Si, chiama mia madre, ti ho detto. Dille che tra poco sarà nonna; e chiama Kelly, voglio lei in clinica; non mia madre, Kelly"
Lo sguardo di David fu più confortato.
"Certo Amore, ti accompagno e le chiamo subito".

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Oltre la fine. Beverly Hills 90210Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora